Ciò che muore

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Mercoledì 5 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (406): Ciò che muore non meritava di essere ricordato.

Tutto ciò che muore non merita di essere ricordato.
Un’impietosa sepoltura sia riservata a ciò che abbiamo lasciato precipitare nella dimenticanza.
Più dignitoso trattamento merita ciò che è finito sotto il peso della malinconia del così fu: contiene in sé i germi del riscatto, la possibilità della ‘redenzione’.
Solo noi decidiamo che qualcosa è irredimibile. Imprescrittibile. Imperdonabile.

Non esiste un’ars oblivionalis, un’arte del dimenticare. Non possiamo attivamente agire sulla materia dei nostri ricordi per sbarazzarcene. Quello che possiamo fare è ben più efficace, se poniamo mente alla damnatio memoriae a cui destiniamo persone e cose che abbiano deluso tutte le nostre aspettative. Prestiamo attenzione più alle grossolane esperienze di cui più facilmente ci liberiamo, se abbiano turbato la nostra sensibilità o se abbiano lasciato un segno doloroso nell’anima.

L’effigie di un uomo è curata e trasmessa ai sopravvissuti da coloro che siano destinatari di un’eredità di affetti. La dimensione personale del ricordo è intrisa di moti del cuore che la sostengono. Senza di questi, l’effigie finisce per essere trascurata. Il prolungamento della ‘vita’ delle cose dipende per intero dalla nostra capacità di narrare: non si muore una sola volta!
Noi ci adoperiamo a mantenere in vita lungamente la presenza di coloro che abbiamo amato. La durata delle cose subisce la stessa sorte: durano presso di noi, se abbiamo assegnato loro un valore particolare.
Non è forse lo stesso destino che riserviamo ai nostri amori? La loro durata dipende forse dalla loro natura? non siamo noi a farli durare, assegnando loro le caratteristiche indispensabili perché sopravvivano alle tempeste della vita?

Ma se è così, non è giusto dire che ciò che muore non merita di essere ricordato?

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