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Venerdì 19 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (429): Il nostro tragediare quotidiano
Il terrore degli dèi è tragediato ed esagerato nella vita privata dei Romani e in quella pubblica sino al massimo; […] ne segue che la plebe viene tenuta a freno con oscuri terrori e con tale tragedia (POLIBIO). Un’ansia tragica, dunque, che si vive giorno per giorno, nel rito più che nel mito, nella quotidiana superstizione più ancora che nella rievocazione storico-drammatica delle “preteste” di Nevio, Ennio, Accio, Pacuvio. C’è appena bisogno di dire che nelle parole di Polibio le espressioni “tragedia” e “tragediare” hanno valore puramente negativo e di dispregio, come a indicare un’angoscia irrazionale e assurda; esse sono scritte nel segno di una pragmatica avversione per il tragico, a cui si ispira anche la polemica di Polibio contro gli storici “tragici”. Tuttavia, lo spostamento del tragico dal mondo mitico a quello rituale della religio è caratteristico dei Romani: un tratto che noi moderni possiamo mettere in rilievo, svolgendo in questo senso le osservazioni di Polibio su quello che si chiamerebbe il “tragico quotidiano” della religio italica. – SANTO MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II,1, EDITORI LATERZA 1966: pp.59-60
La prima volta che ne ho sentito parlare è stato nel 1968, durante l’anno accademico 1967-1968, il mio primo anno del Corso di Filosofia alla Sapienza di Roma. Ero curvo su Il pensiero storico classico di Santo Mazzarino, Maestro di Storia romana. Non capivo bene la portata della sua riflessione sul ‘tragico’.
Dopo aver ‘letto’ in tutto questo tempo i tragici greci e poi i moderni, la riflessione dei filosofi e dei critici letterari sull’essenza del tragico, ho continuato ad interrogarmi su quel ‘tragediare quotidiano’ che ancora oggi mi affascina, perché credo di averne colto qualche aspetto essenziale.
Se il cuore della tragedia, il suo acmè, è dato dalle opposte volontà divine che confliggono nella coscienza dell’eroe protagonista, e se l’esito del drãn, cioè dell’agire tragico, è sempre lo stesso, possiamo concentrare la nostra attenzione su un ‘momento’ che ancora appartiene anche a noi. Mi riferisco al tempo che precede la scelta, che vede l’eroe sempre diviso, nella condizione di chi comunque ‘sbaglierà’, qualunque cosa scelga.
In questione, tuttavia, non è lo statuto del tragico. Il sapere tragico, piuttosto, è ciò che ci preme mettere a fuoco, cioè la possibilità di arrivare a qualche conoscenza attraverso il conflitto drammatico che questa forma esprime.
Diventa più chiaro quello che chiameremo ‘tragediare quotidiano’, il nostro tragediare quotidiano, se pensiamo alle grandi scelte che abbiamo affrontato, quando, ad esempio, abbiamo dovuto definire i modi del legiferare in materia di aborto. Di una scelta tragica si è trattato, perché eravamo tutti divisi tra il non legiferare – per non ‘riconoscere’ la realtà dell’aborto -, cosa che avrebbe comportato il perpetuarsi delle pratiche clandestine, che tanto hanno nociuto alla salute delle donne e alla loro stabilità psicologica, e il legiferare, che avrebbe tutelato la salute delle donne in strutture sanitarie pubbliche, ma sarebbe stato la sanzione della liceità dell’aborto.
Potremmo dire, in breve, che ritrovarsi di fronte alla scelta e non poter scegliere, esitare di fronte alla scelta è il tragediare, cioè vivere la condizione tragica di scissione interiore tra due ragioni tra le quali è necessario scegliere.
Immaginate ora una madre a cui sia morto un figlio per droga. Immaginate ancora che questa madre, in virtù della sua profonda religiosità, senta la presenza di questo figlio fino al punto di vivere ancora, dopo quasi due anni, con lui ogni giorno; che parli di lui ogni giorno; che faccia ruotare gran parte della sua vita ora intorno al compito della memoria.
Da una parte, è operante il ricordo doloroso di ciò che il figlio effettivamente è stato; dall’altra, l’onda dei ricordi le riporta un cumulo di memorie tutte positive: la gioiosità, la vitalità, la sensibilità, la creatività di quel figlio.
C’è chi non comprende il lavoro della memoria che lei sta compiendo, per salvare dall’oblio in cui inevitabilmente precipiterà tutto ciò che di buono pure suo figlio è stato: c’è chi vorrebbe che lei tacesse, che smettesse addirittura di andare al cimitero, che si sbarazzasse degli oggetti e di tutte le cose che testimoniano il suo passaggio sulla terra! E tutto questo in nome della verità, di una sola verità, della verità di ciò che lui è stato nella seconda parte della sua vita.
C’è chi crede, invece, che lei faccia bene a proseguire nell’opera strenua di difesa dalle ingiurie del tempo della parte della vita di suo figlio che lo vedeva felice e inconsapevole del destino che lo attendeva.
Io chiamo ‘tragediare quotidiano’ la condizione di questa madre che sicuramente custodisce in sé il ricordo di quelle due verità, a cui dovrebbe forse rendere omaggio laicamente, senza farne cadere nessuna. Veramente difficile, però, per una madre contemplare il lato oscuro di quella esistenza spezzata, considerandolo alla stregua di tutto quello che fu luce nella vita di suo figlio!
Mentre rivive le cose buone sarà sicuramente lacerata dall’insidia perenne delle cose cattive che pure furono e che vengono in qualche modo ricordate dallo spettacolo della vita di coloro che conobbero suo figlio.
Un esercizio spirituale in più potrebbe essere anche questo: individuare e fissare le situazioni in cui ci ritroviamo a vivere noi e coloro che ci circondano, riservando un’attenzione particolare a tutte quelle in cui due ragioni si combattono in noi, lacerando la nostra coscienza.
Il nostro tragediare quotidiano è fatto di tutti gli affanni che provengono da situazioni esterne a noi ma che ci vedono in qualche modo coinvolti, con la profondità delle questioni religiose e ‘mitiche’ o con la profondità dei garbugli del nostro cuore. Questi ultimi non traggono origine da numina, come chiamavano i Romani la volontà degli dei, o da timai, come chiamavano i Greci i contrastanti discorsi degli stessi dei.
Nella foresta dei simboli di cui è intessuta l’esperienza, spesso ci si para davanti la necessità della scelta. Talvolta, non siamo noi con la nostra coscienza di fronte al compito a dover scegliere: la nostra coscienza diventa campo di battaglia per compiti a cui non riusciamo a sottrarci; il tempo della scelta non è il tempo della decisione immediata.
Lo strascico della contesa si porta con sé una parte importante delle nostre energie, fino alla consumazione di quel tempo tragico, fino alla risoluzione del conflitto.
Oltre ogni radicale dissidio, si accampa sulla scena la coscienza ‘pacificata’: siamo pronti per un altro inciampo, per un altro impedimento, per i malintesi e le incomprensioni che ci aspettano. Per i torti e i soprusi, i dinieghi e le menzogne. Di essi è fatta la nostra vita.
Sigur Rós – Varúð (Valtari Mystery Film Competition) from Kris Sundberg on Vimeo.