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Martedì 30 ottobre 2012
Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (432): Caduto fuori dal tempo
Non capisco qualcosa finché non la scrivo. – DAVID GROSSMAN
Io credo che trovare le parole sia per ogni uomo una delle condizioni della propria libertà. Dare voce ai sentimenti, poi, è compito essenziale per ‘salvarsi’: c’è un’altra via per fronteggiare il dolore conseguente a una perdita? Ogni persona dovrebbe essere aiutata veramente ad ‘elaborare il lutto’. Tuttavia, ho sempre sentito dire: “Ora deve elaborare il lutto”, come se ognuno di noi, lasciato solo, fosse in grado di farlo!
Della Morte ci siamo affrettati a dire, consumata tutta la vita – non abbiamo forse reso tutto ‘comune’, come direbbe Rilke? -, che è l’ultimo tabù! Per fortuna, l’Irrappresentabile per eccellenza non si lascia ridurre a mero concetto e assedia le nostre notti e agita con tutti i fantasmi con i quali cerchiamo di esorcizzarla le nostre ore!
Tra pochi giorni onoreremo i nostri morti – il Cimitero della mia città si trasformerà in un tappeto di fiori -, ma con quali parole? La “corrispondenza di amorosi sensi” dura nel nostro cuore? Ma soprattutto, che ne è di coloro dai quali abbiamo subito un abbandono? Dove sono tutti quelli che hanno finto di amarci o hanno solo creduto di poterlo fare? Con quali mezzi ci accingiamo sempre di nuovo ad attraversare il deserto delle nostre solitudini? Siamo disposti ad accettare la necessaria solitudine che contraddistingue ogni esistenza in quanto tale?
Questa mattina i giornali parlano di un bambino di dieci anni che si è impiccato. Troveremo le parole?
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La riflessione che precede è stata originata da un Commento alle parole di Grossman di una amica poetessa, Grazia Apisa Gloria :
Nella scrittura parla chi ci abita. L’anima pensiero nel suo dirsi spontaneo e la coscienza ragione ne prende atto nella riflessione: vede più nitidamente e in profondità ciò che in forma intuitiva già sapeva. Mi riconosco in questo dire di Grossman. I suoi libri sono come luce che illumina la zona d’ombra della vita.
Posso soltanto testimoniare che io sono stata salvata (all’età di dieci anni, non ancora compiuti) non dalle persone che avevo intorno, ma da uno scritto poetico di un autore di cui non ricordo neppure il nome.
Nella più cupa disperazione, già determinata a darmi la morte, alzai lo sguardo intorno ed aprii un libro, un’antologia di scuola di mia sorella maggiore, una poesia mi folgorò: esprimeva il mio vissuto di solitudine. Ricordo soltanto il pensiero che attraversò la mia mente: “Se esiste una persona che ha vissuto questo, io non sono sola, se lui ha vissuto anch’io devo vivere per aiutare chi vive questo senso di solitudine, anch’io scriverò per salvare qualcuno, senza ancora essere consapevole che chi riesce a dirsi salva per primo se stesso. Qui è nata la mia vocazione, anche se scrivevo già dall’età di 7 anni.
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Tutto comincia con un’immagine, un gesto, un movimento di misteriosa, evocativa potenza: un uomo si alza all’improvviso da tavola, prende commiato dalla moglie ed esce per andare “laggiù”.
Ha perso un figlio, anni prima, e “laggiù” è dove il mondo dei vivi confina con la terra dei morti.
Non sa dove sta andando, e soprattutto non sa cosa troverà. Lascia che siano le gambe a condurlo, per giorni e notti gira intorno alla sua città e a poco a poco si unisce a lui una variegata serie di personaggi che vivono lo stesso dramma e lo stesso dolore: il Duca signore di quelle terre, una riparatrice di reti da pesca, una levatrice, un ciabattino, un anziano insegnante che risolve problemi di matematica sui muri delle case. E l’uomo a cui è stato affidato l’incarico di scrivere le cronache cittadine. Ciascuno ha la propria storia, chi ha perso il figlio per una grave malattia, chi in un incidente, chi in guerra. Insieme a loro idealmente, visto che non può muoversi dalla sua stanza, c’è anche una strana figura di Centauro, con la parte inferiore del corpo che nel tempo si è trasformata in scrivania. È uno scrittore che da quindici anni vive circondato dagli oggetti del figlio che non c’è più, e il cui unico desiderio da allora è catturare quella morte con le parole. “Non riesco a capire qualcosa finché non la scrivo” dice. È lui a ispirare e a inglobare la storia che stiamo leggendo.
La marcia di quei genitori prosegue in giri sempre più ampi intorno alla città, monologando o dialogando ognuno di essi parla di sé, del desiderio di rivedere almeno una volta il proprio figlio, della vita che si è interrotta in quel tragico momento. E ognuno ha una sua voce, che Grossman in modo sublime trasforma nella voce della poesia, la lingua del dolore.
Arriveranno “laggiù”? Sì, ci arriveranno, fusi a quel punto in un coro di pura e profonda umanità. E noi con loro, in pagine di sconvolgente intensità e verità. Per capire, insieme a Centauro, che il cammino di questi uomini e donne esiliati nella terra del dolore è stato una “lotta contro la distruzione, la cancellazione, l’oblio”, il bisogno di dare un paesaggio a quella terra, la volontà di sottrarre la memoria alla tenebra per riconsegnarla alla vita.
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David Grossman è intervenuto ieri sera, 29 ottobre, nel programma Che tempo che fa, di Fabio Fazio, sul suo libro.