Una Casa

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Domenica 4 novembre 2012

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (2): Una ‘casa’ che sia anche comunità di destino

La realtà educativa di Exodus si sostanzia oggi di un modo nuovo di intendere i luoghi della sua azione educativa: don Antonio Mazzi, il Fondatore di Exodus, pretende da noi che chiamiamo Case e non Comunità le sedi territoriali.
‘Comunità’ conserva il vizio di origine di un termine che viene ricondotto comunque alla Comunità terapeutica, anche se quest’ultima è realtà diversa per ragioni giuridiche e tecniche – si richiede un ‘accreditamento’ della sede da parte della Regione competente, perché l’Ente si definisca ufficialmente come Comunità terapeutica: la presenza ‘in organico’ di personale specialistico soltanto consente di definirsi tale, dopo l’accreditamento.
Don Antonio ama ripetere da qualche anno che le nostre sedi non sono Comunità terapeutiche – anche se alcune di esse si sono avviate a chiedere il riconoscimento della Regione come Comunità terapeutiche -, ma non vuole nemmeno sentir dire più che sono Comunità: le stesse sedi riconosciute come Comunità terapeutiche debbono essere Case per i ragazzi. Un intero Capitolo – quello del 2011 – è stato dedicato al tema della Casa. Non starò qui a dire cosa sia Casa.
Mi preme, piuttosto, dire che Libera Mente, il Centro di ascolto in cui lavoro per Exodus, potrebbe essere considerato una Casa, anche a partire dall’idea di comunità di destino. Questa espressione non si sostituisce a quella di Casa. Non serve per chiarirla, per illustrarla, per comprenderla meglio. Diciamo pure che è una via diversa, percorsa da altri, che conduce allo stesso valore. Una comunità di destino, però, non è necessariamente una Casa: può essere anche soltanto un gruppo provvisorio che sia impegnato nel lavoro di aiuto. Perciò, Comunità di destino e Casa non sono la stessa cosa.
L’attitudine quotidiana di una Casa che ospiti i ragazzi in permanenza è complessa, giacché comprende: i principi, i valori, le idee, il linguaggio comune a tutte le Case di Exodus; ‘programmi’ personali da seguire; orientamenti per il reinserimento sociale e lavorativo ‘costruiti’ con la persona; un sistema di ‘regole’ che scandiscono il tempo della giornata.
Il Centro di ascolto, attraverso i suoi Educatori,  può ‘trattenere’ un ragazzo per due ore alla settimana, in due colloqui settimanali; può prolungare quel tempo, se le esigenze della situazione portano naturalmente a superare il tempo stabilito; può incontrare, eccezionalmente, il ragazzo fuori della sede, per interventi finalizzati all’aiuto; costruisce con la famiglia un’alleanza destinata a durare a lungo nel tempo, perché una visione sistemica della famiglia stessa favorisce la ‘ricostruzione del paesaggio affettivo’ da parte del ragazzo; finisce per coinvolgere gli stessi Educatori in una vita di relazione che interessa la loro esistenza personale: è impossibile non uscire dall’indifferenza, ammesso che mai un Educatore possa essere indifferente alle vicissitudini della coscienza dell’altro!

Preferire ‘Casa’ a ‘Centro di ascolto’ sarà un’attitudine da promuovere nei rapporti tra adulti, cioè tra i genitori e gli Educatori, per interessare successivamente i ragazzi stessi a questa idea.

Ritenere, come io penso, che ‘comunità di destino’ sia espressione più forte e pregnante non vuol dire che riceverà una buona accoglienza. Probabilmente, questa idea non sarà nemmeno compresa. Sarà sicuramente respinta da chi giudica sufficiente il concetto di Casa.
Accogliere una persona in una comunità di destino significa proporle un ‘luogo’ in cui il criterio della medesimezza umana guida tutti i gesti e i discorsi: gli Educatori sono essi stessi comuni mortali che portano nella relazione educativa la loro biografia, la loro fragilità, i limiti della loro esistenza. Per un ragazzo che ami smontare i motori delle automobili come relazionarsi con chi, come me, predilige la letteratura e la filosofia? Questo è un mio limite. Io andrò all’incontro con quella esistenza consapevole del fatto che difficilmente riuscirò ad essere alla sua altezza.

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