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Mercoledì 26 dicembre 2012
IMPARARE A VIVERE (3)
Aσκήσεις (6): Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore
[ La stesura di questo articolo si basa per intero sul saggio di MORENO MANGHI, Il rifiuto. La Versagung nell’insegnamento di Lacan (ottobre 2009). Il progredire della conoscenza delle questioni teoriche e delle implicazioni pratiche imposte all’attenzione dalla lettura del saggio stesso comporterà correzioni e aggiornamenti del nostro articolo. La provvisorietà di questa sintesi personale è un tacito invito a chi legge a procedere con la lettura personale di quel testo nevralgico della letteratura psicoanalitica contemporanea. ]
INDICE del saggio:
I. La frustrazione, 2
Riferimenti bibliografici dei seminari di Lacan citati, 3
Liminare, 4
PRIVAZIONE-FRUSTRAZIONE-CASTRAZIONE, 8
Privazione, 9
La privazione è la mancanza reale di un oggetto simbolico
Frustrazione, 11
La frustrazione è la mancanza immaginaria di un oggetto reale
Castrazione, 12
La castrazione è la mancanza simbolica di un oggetto immaginario
LA DIALETTICA DELLA FRUSTRAZIONE NELLA DOMANDA D’AMORE, 16
IL NESSO FRUSTRAZIONE-REGRESSIONE, 23
A CHE PUNTO SIAMO. RICAPITOLAZIONE, SCHIARIMENTI, GLOSSE, 28
AL DI LA’ DELLA DOMANDA D’AMORE: IL DESIDERIO, 32
AMORE INCONDIZIONATO E DESIDERIO COME CONDIZIONE ASSOLUTA, 36
LA VERSAGUNG AL CENTRO DELLA TRAGEDIA MODERNA, 42
La vertiginosa altezza raggiunta con il concetto di Versagung in ambito psicoanalitico può essere compresa solo da chi abbia dimestichezza con i temi dell’Educazione e della Cura, per le ripercussioni che quel concetto è destinato ad avere sulle idee che guidano Educatori e Terapeuti. Siamo oltre Pedagogia e Psicoterapia: non vale qui il solo specialismo delle Professioni d’aiuto, con titoli e curricula. Parliamo di cure informali, cioè di qualcosa che si situa al di qua dell’intervento codificato da setting e protocolli, perché il ‘fenomeno’ descritto non è riconducibile al solo ambito psicopatologico.
Accade a tutti noi, nel corso della vita, di ritrovarci accanto al dolore di qualcuno: allora saremo confortati nell’azione dal nostro sapere pratico e dall’esperienza, la nostra esperienza delle cose. Per me, ad esempio, che lavoro in un Centro d’ascolto per tossicomani da ventitré anni, è facile stare accanto a un ragazzo che sia affetto da quella grave patologia. Avendo imparato a tenere distinti ambiti di intervento e ruoli, riesco a stare nel ‘campo’ che mi appartiene, che è quello dell’educazione e delle cure informali. A proposito di queste ultime, non andranno confuse con le cure dei familiari, quando si tratti di assistere una persona affetta da malattie invalidanti o tipiche della vecchiaia. Genericamente intese, anche se previste con rigore dalla Scuola di Trento, ad esempio – vedere la Voce di Dizionario Community care in “lavoro sociale 3/2004, pp.421-426” e Cure informali (care) in “lavoro sociale 1/2002, pp.131-138” -, esse sono il nostro prenderci cura di persone che affiancheremo anche per anni: nel Centro di ascolto Libera Mente ci sono persone che frequentano il Centro anche da quindici anni. L’opera di affiancamento dei genitori che vi si conduce nel gruppo di auto-aiuto delle famiglie ci spinge a fare queste riflessioni sulle cure informali: in quanto adulti educatori, i genitori apprenderanno nuove modalità di comunicazione con i loro figli e nuovi stili educativi. Dovranno scegliere nuovi modelli educativi. Oppure, fare riferimento a vecchi modelli che conservino ancora la loro efficacia. Sicuramente, dovranno modulare il loro comportamento, basandosi sulla ‘fase’ che si sta attraversando: di puro ‘contenimento’, quando il ragazzo è nella fase acuta della dipendenza; di accettazione e di orientamento, quando i processi riparativi e ricostruttivi della personalità siano stati avviati.
Un Educatore che operi in un Centro d’ascolto può rivendicare l’assenza di competenze sviluppate in ambito accademico, essendo fornito di esperienza d’insegnamento – come nel mio caso – e di saggezza di vita, essendo un adulto impegnato nella formazione permanente di sé, nella cura di sé, nella ricerca costante delle proprie ragioni di vita nello studio, nella riflessione, nell’azione. Quasi cinquant’anni di studio della Filosofia, trentacinque anni di insegnamento della Letteratura italiana e latina, ma soprattutto della Lingua italiana, ventitré anni di lavoro sociale in un Centro d’ascolto, un’esperienza di formazione permanente in Exodus avviata venti anni fa autorizzano a pensare di aver conseguito certezze nel campo dell’Educazione e della Cura.
Rivendicare il valore e il peso di cure informali ha senso, perché prima, durante e dopo ogni intervento riparativo e ricostruttivo, intervengono a diverso titolo famiglia e volontariato sociale con un’azione educativa che è importante oggi che non dica genericamente ‘frustrazione’ e ‘rinuncia’: più correttamente c’è da dire Rifiuto (Versagung), con tutto quello che comporta di nuovo, anche per noi, questa rinnovata prospettiva.
La pedagogia dei sacrifici e delle rinunce, da cui provengo, non sembra essere più di moda. Eppure, il senso del limite si apprende soltanto quando ci si scontri con le prescrizioni per l’azione che sono dettate da un’autorità riconosciuta e ‘ascoltata’. Un tempo contribuivano anche le pene corporali a confermare l’autorità della scuola e della famiglia. Oggi, è più difficile acquisire autorità sul campo, senza la ‘sponda’ rappresentata da Autorità che non era necessario nemmeno riconoscere, perché si imponevano sui ragazzi per il mandato ricevuto.
Il ‘comandamento’ Onora il padre e la madre, ad esempio, aveva una sua forza, per cui si imponeva nelle nostre vite attraverso esempio e testimonianza: i padri non erano soltanti i ‘patriarchi’ che rivendicavano un potere quasi esclusivo sui figli: essi provvedevano sempre alla trasmissione del desiderio. Quando chiesi la bicicletta nuova a mio padre, non disse di no. Ci pensò un po’ su e disse solennemente che l’avrebbe comprata «tra un anno». Naturalmente, io mi misi subito a contare i giorni. Così nasceva e si irrobustiva in noi il desiderio. Così imparavamo a differire nel tempo la soddisfazione dei nostri desideri: sapevamo che non sarebbe stato mai possibile avere ‘subito’. Nemmeno potevamo sperare di avere ‘tutto’. Passavamo il tempo a pensare a tutto quello che non avremmo avuto mai, perché troppe erano le cose che giudicavamo ‘irraggiungibili’. Così potevamo sognare ad occhi aperti, portandoci nel cuore le nostre segrete speranze. Così curavamo lo sviluppo dello spazio interiore indispensabile ad elaborare quello che poi sarebbe stato chiamato frustrazione. Ciò che ci veniva negato per l’immediato rientrava nel numero delle cose a cui bisognava rinunciare temporaneamente, in attesa di un ‘incasso’ certo ma lontano nel tempo. Così imparavamo a conoscere attesa e speranza. Così imparavamo ad accettare la rinuncia, la mortificazione, il sacrificio, l’assenza, la mancanza. In seguito, avremmo compreso meglio l’abbandono e la perdita.
Possiamo dire oggi che l’esperienza dell’abbandono è devastante, perché va ad intaccare i fragili equilibri che siamo impegnati a costruire ‘intorno’ al nostro Io, dimentichi del più poderoso e solido ‘contesto’ della persona.
L’esperienza della morte ci è più ‘familiare’, se non altro perché ‘attesa’, anche se la cultura dominante tende ad esorcizzarla, aiutandoci a ‘scansarla’, ad evitare di fare i conti con essa: è stato detto autorevolmente che è l’ultimo dei tabù.
Il campo dell’esperienza si è dilatato, per noi. Si potrebbe parlare di una mutazione antropologica che ha investito i sessi e le culture, che ha messo in questione sempre più i modelli educativi, che non ci consente di pensare l’esperienza nei termini autoritari in cui risultava ‘facile’ trasmettere esperienza da una generazione all’altra. La stessa espressione ‘trasmettere esperienza’ era forse già inadeguata allora: si trattava sempre di imposizioni, che spesso tradivano le vocazioni naturali delle persone… Quando, a partire dagli anni Sessanta, le energie ‘creative’ delle giovani generazioni si sono liberate, la mobilità sociale è cresciuta, le classi sociali sono scomparse, le distanze tra le persone si sono accorciate. La caduta delle barriere che tenevano separati i mercati, tuttavia, ha generato un nuovo tipo di solitudine: forgiare il destino personale in un campo tanto grande ha reso tutti esposti, più deboli, con meno tutele e scarse certezze sul mondo esterno. Da venti anni, almeno, nelle politiche di intervento a sostegno delle persone affette da grave disagio sociale, a partire dagli adolescenti, si è affermata una pedagogia interamente incentrata sulla persona, per ‘scoraggiare’ la domanda di sostanze stupefacenti e psicotrope, anche attraverso la promozione delle forme più impensate di agio sociale. Lo sfondo sociale, però, è rimasto immutato. Sdoganamento del narcisismo, epoca delle passioni tristi, nomadismo intellettuale, tribalismo giovanile sono stati invocati per dare un nome al disagio della civiltà di oggi. Schematizzando molto, si potrebbe dire che all’idea freudiana di un principio della realtà che si imponeva sul principio del piacere, inducendo il soggetto a rinviare il soddisfacimento del desiderio, si è sostituito un principio del piacere, che trova nel soddisfacimento immediato di tutti i desideri un indebolimento del soggetto stesso, che stenta ad incontrare il suo limite, impegnato com’è a scansare ogni forma di privazione e di dolore. Sacrificio e rinuncia sembrano i termini di una ‘regola’ del vivere quotidiano che non trova mai la propria misura.
Può, allora, ‘funzionare’ ancora una pedagogia dei sacrifici e delle rinunce, aiutando le autorità parentali e scolastiche a segnare il limite che solo consente di crescere, giacché assegna mete credibili all’azione e fonda i processi di individuazione personali su un senso di sé che non si risolva nella dissipazione infinita del consumo e basta?
La riconsiderazione della frustrazione nel quadro da cui ‘proviene’ e le sue relazioni con privazione e castrazione soltanto ci consentiranno di inscrivere le forme della mancanza sotto i registri del simbolico, del reale, dell’immaginario. Solo per questa via l’amore troverà la sua giusta collocazione, se sapremo oscillare tra presenza e assenza, senza perdere mai di vista il potere di chi ha da dispensare il dono, che può sempre revocare il patto, rifiutandosi di rispondere alla domanda d’amore.
Ritrovarsi di fronte a questo rifiuto non significa soltanto sperimentare l’abbandono reale e la perdita reale dell’oggetto d’amore. Il ‘soggetto del rifiuto’ è inizialmente la madre, in seguito la donna, che ci metterà di fronte alla sua mancanza costitutiva, facendoci misurare nella maniera più esatta il ‘destino’ del desiderio.
Imparare a vivere, in questo quadro, significherà imparare a comprendere che non ci troviamo più di fronte all’onnipotenza delle madri, che non rinunceranno mai a donare l’amore incondizionato di cui i piccoli hanno bisogno, ma saranno costrette sempre più consapevolmente a rifiutarsi di dire sì a ciò che non possono dare, perché ne sono prive, e per l’insaziabilità del desiderio: soddisfare esso ‘incondizionatamente’, ammesso che sia possibile, non basterebbe a ‘colmare’ la mancanza costitutiva di ogni essere umano, che è destinata a rimanere tale, in tutte le epoche della vita.
A questa coscienza alta della nostra condizione deve corrispondere una capacità di visione della realtà dell’anima altrettanto alta: ‘psiche’ non basta più, con i vecchi schemi del Novecento.
L’esercizio che ci attende è abitare la distanza, come etica del linguaggio che pensa l’invisibile dell’esperienza propria e quella altrui, senza impazienze e senza soverchie illusioni. La distanza che separa dagli altri è da ricondurre sempre alla nozione definitiva di mancanza, che istituisce ogni altra nozione e tutte le categorie di cui ci serviamo per ordinare l’esperienza nei suoi confini.
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«Vi ho pregato di rivedere l’uso che si fa oggigiorno in analisi del termine frustrazione. Volevo così incitarvi a ritrovare ciò che vuol dire nel testo di Freud, dove quel termine non viene mai utilizzato, il termine originale di Versagung, nella misura in cui ha un accento che va ben al di là e più a fondo di ogni frustrazione concepibile». (Jacques Lacan, Il Seminario, Libro VIII, p. 330 dell’edizione in lingua francese)
Per tornare a Versagung e alla portata di questo concetto per noi, sarà utile fare riferimento a un’occasione linguistica denunciata da Moreno Manghi, autore del saggio Il rifiuto. La Versagung nell’insegnamento di Lacan su cui poggia questa nostra riflessione: tutta la psicoanalisi del Novecento ha contribuito a costruire una ‘pedagogia della frustrazione’ sulla base di un termine che non compare mai nell’opera di Freud! (Anche noi, in verità, abbiamo creduto fino a poco fa che il tossicomane sia persona che non tollera il peso della frustrazione! E’ dato poco rilevante che si dia pure il fatto dell’irritazione conseguente a tutte le esperienze di assenza e all’incapacità di agire indotta dalle sostanze: il disturbo prodotto dalle condotte d’abuso ha la sua ragione in un più generale ‘blocco’ della capacità di accettare le rinunce che accompagnano i nostri atti liberi. In assenza di questi ultimi – se anche noi ci ritroviamo nella condizione di non poter agire liberamente, saremo irascibili, irritabili, ‘frustrati’… -, cercheremo altrove la spiegazione del nostro disagio).
La nozione di frustrazione andrà ricondotta dentro più nitidi confini, se opportunamente distinta da privazione e castrazione e articolata rispetto alla mancanza dell’oggetto secondo le categorie dell’oggetto simbolico, reale, immaginario:
Mancanza | Reale: Privazione | Immaginaria: Frustrazione |
Simbolica: Castrazione |
Oggetto | simbolico | reale | immaginario |
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Leggere anche
Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale
Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo
Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta
Aσκήσεις (4): Strategie di apparizione
Aσκήσεις (5): I nostri Esercizi
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Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?
Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.