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Martedì 15 gennaio 2013
CAMMINARSI DENTRO (442): Il soggetto inconscio del desiderio che noi siamo e la ‘vittoria’ dell’Io contro la vita: l’invidia della vita all’origine dell’aggressività umana
A pagina 50 del suo Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Massimo Recalcati illustra incisivamente l’esito violento e la successiva pacificazione del soggetto che abbia esercitato la sua aggressività contro il “più simile”, il “più prossimo” a lui: «L’oggetto colpito – come insegna Aimée – è una versione idealizzata del soggetto che colpisce. È il suo “ideale esteriorizzato”. L’ammirazione idealizzante dà luogo a un’aggressività invidiosa perché l’esistenza dell’oggetto mostra persecutoriamente al soggetto ciò che esso non è. In questo senso, colpire l’altro è sempre colpire se stessi. Per questo, nel caso Aimée, Lacan indica come sia proprio la punizione del crimine, la sua sanzione simbolica – la reclusione di Aimée in carcere -, a riassestare i ruoli simbolici e a rivelarsi come pacificante per il soggetto». [Torneremo sul caso Aimée, su cui Lacan riferisce nella sua Tesi di Dottorato di Medicina, pubblicata nel volume Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità (1932), che inaugura un interesse costante, destinato a protarsi fin dentro la tarda maturità: la paranoia coincide tout court con la personalità (Seminario XXIII, pag.50); una tendenza primaria dell’uomo.]
Sembrerebbe, così, tutto spiegato, anche il caso di Erika De Nardo, la ragazza di Novi Ligure che uccise la madre e il fratellino. Gustavo Pietropolli Charmet, che faceva parte del Collegio dei periti che dovevano stabilire se Erika fosse colpevole, annotò nei suoi appunti che alla domanda: «Tua madre ti voleva bene?» Erika aveva risposto: «Non lo so». Charmet commentò in seguito: «Come è possibile andare in giro per le vie del mondo senza sapere che tua madre ti vuole bene?» La sua conclusione, che per tutto questo tempo io non avevo capito, fu: «Erika, dunque, è colpevole».
Proprio perché le condizioni di salute di Erika non furono definite buone – si parlò di un disturbo di personalità che forse le impediva di ‘sentire’, cioè provare emozioni e sentimenti -, io non riuscivo a comprendere la natura della sua colpevolezza: era capace di intendere, ma era anche capace di volere? La sua era una volontà libera, posto che non era sostenuta adeguatamente dalla percezione del valore, del significato della madre e del fratello?
Anche una volta accertato che lei – come il marito che uccide la moglie in casa, come tutti noi che spesso esplodiamo contro l’altro senza una ragione prossima, cioè senza una causa chiara – è ‘sana di mente’, ci ritroveremmo comunque di fronte a una colpa, che trae origine da quella che Lacan chiama “invidia della vita”, perché la nostra ‘risposta’ aggressiva non è conseguente ad una frustrazione ma ad una gratificazione. Ciò che si staglia davanti a noi non è qualcosa che ci viene negato: paradossalmente, dall’oggetto della nostra invidia aggressiva deriva solo amore, sovrabbondante amore. Il rifiuto dell’accettazione di quell’amore dipende dai sentimenti negativi che esso suscita in noi, che ci sentiamo esclusi da esso, e proprio mentre più grande si fa la cura nei nostri confronti! Ci sentiamo esclusi, perché le forze che ingabbiano la nostra parte ‘buona’ ci fanno proiettare sull’altro sentimenti persecutori, inducendoci ad elaborare pensieri negativi che sono solo la proiezione della nostra parte ‘cattiva’: finiamo per odiare nell’altro quello che non ‘troviamo’ in noi. Uccidiamo nell’altro quello che noi vorremmo essere, quello che abbiamo sempre sognato di essere.
La causa della nostra aggressività è tutta nella fissazione irrigidita nello “stadio dello specchio”, nella mancata accettazione della scissione originaria tra il soggetto inconscio del desiderio che noi siamo e l’ideale dell’Io con il quale erroneamente ci identifichiamo, pretendendo di ricondurre ad unità la dualità insanabile che solca la nostra coscienza: noi non proveniamo da una unità originaria a cui poter tornare: ogni nostalgia di questo genere è condannata ad essere insoddisfatta, non può essere soddisfatta da niente e da nessuno. Superare lo ‘stadio dello specchio’, allora, significa abbandonare la pretesa di unità per imparare a cogliere e a rispettare la diversità, la differenza irriducibile con l’altro che è in noi, come con l’altro che è fuori di noi.