Il bisogno di esistere

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Mercoledì 20 febbraio 2013

CAMMINARSI DENTRO (459): Il bisogno di esistere

L’essere oggetto d’amore è, per così dire, il luogo in cui solamente la persona esiste e può quindi anche venire alla luce. (Max Scheler, Essenza e forme della simpatia)

Ricevere un primo sguardo interessato e poi inequivocabili gesti di affetto e complicità, e poi scoprire che non occorre alcuno sforzo per istituire file di continuità in un cercarsi e trovarsi e manifestarsi la gioia del contatto e dello scambio non è quello che comunemente poi si chiama felicità? Non è forse la gioia sovrabbondante il culmine della tensione sentimentale? Sentire in ogni istante la presenza dell’altro e non dubitarne mai.
Immaginate ora che questo stia accadendo a un ragazzo di trent’anni o forse più. E non importa che sia un tossico e che la sua donna non sia poi quello che ci vorrebbe per lui, a giudicare dai suoi racconti. Basta leggergli negli occhi la sovrabbondanza e la continuità e il corteo dei giorni felici. Non è forse questo sentirsi vivi? Non è riconoscimento, accrescimento di sé, sicurezza raggiunta? Non si ha più paura.
Di tutte le forme di benessere che l’amore procura c’è quella più trascurata, che emerge chiara nei giorni dell’abbandono e della miseria, cioè il rafforzamento e il completamento dell’identità personale. Se a definire quest’ultima nel tempo concorrono fattori più sostanziali e concreti – l’indipendenza economica fornita dal lavoro, l’autonomia personale che si realizza nella vita di relazione -, è a partire dalla certezza di essere amati che ci si protende verso il mondo con fiducia, incoraggiati ad osare. Si è più assertivi. Il curriculum vitae ha una riga in più. Nessuno andrà in giro a dire: abbiate fiducia in me, ho una donna. Tuttavia, il cuore lo pensa. Quel sentimento di sé diventa la base su cui riposano le altre certezze. Anche i filosofi hanno detto che nelle cose d’amore ne va della nostra identità. Si dilata il senso del tempo: il futuro non è più una minaccia; si pensa a quello che potrebbe esser fatto più in là di un giorno. C’è qualcuno che ci autorizza a sperare.
Dell’amore di un uomo per una donna, dell’amore ricambiato, diremo che soddisfa il nostro bisogno di esistere, se esistere significa trascendere il puro dato vitale, la condizione di sussistenza nel presente e basta. Il carattere temporale dell’esistenza personale permette di dire che consistere nel qui e nell’ora ha senso se quello stesso consistere è oscillare tra progetto e destino, protesi verso il progetto della propria esistenza, cioè verso la realizzazione del soggetto del desiderio che noi siamo. Abbiamo bisogno d’amore perché soltanto sotto lo sguardo benevolo di una donna ci sentiremo al riparo dalle ingiurie del tempo. I colpi della sorte non ci troveranno esposti e impreparati. Fraintendimenti e incomprensioni, invidie e gelosie, esclusioni e negazioni non ci vedranno soccombere. Sapremo sempre raggiungere e oltrepassare la soglia del tempo. Non conosceremo la stagnazione del desiderio e l’inaridirsi del cuore. Occupiamo un luogo illuminato che ci scalda il cuore e ci chiama incessantemente ad esistere.

Ma la cosa migliore non furono quei baci e neppure le passeggiate serali, o i nostri segreti. La cosa migliore era la forza che quell’amore mi dava… – Hermann Hesse

Immaginate ora il tempo della miseria e dell’abbandono, meglio ancora il tempo che precede ogni abbandono, quando un amore sia di quelli che non durano per sempre, e immaginate di avere di fronte un ragazzo di trent’anni o forse più, che si sia legato a una donna che lo fa soffrire già, che gioca a non farsi trovare, ma che gli concede capricciosamente attimi estatici e abbandoni assoluti, ci prodigheremo a dire che non è vero amore, che esso non durerà, quando il ragazzo, istruito dalla vita a riconoscere il vero amore, chiamerà amore anche questa pena del cuore, per la compiutezza e la continuità mai raggiunte? Se chiameremo amore ogni amore, anche quello non corrisposto o che cessi di essere tale, non sarà sempre per quel bisogno di esistere che è alla base della nostra esperienza amorosa: non siamo forse noi a dire ‘amore’ prima di aver avuto la certezza di essere amati, e di essere amati di amore vero, quello che è fatto di file di continuità ininterrotte e con i chiari caratteri di ciò che durerà per sempre?
Jacques Lacan ha scritto che «l’amore è sempre corrisposto». Se è così, se così deve essere per poter dire ‘amore’, non dovremo imparare allora a ‘curare’ meglio il nostro bisogno di esistere, senza incorrere nell’errore, magari ripetuto nel tempo, di affrettarci a chiamare amore quello che presto si rivelerà solo una canzone di Cole Porter?

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