Il non vissuto che ci accompagna

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Lunedì 25 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (465): Il non vissuto che ci accompagna

Forse il momento della consapevolezza più grande fu quello dell’estate del 1967, quando mi ritrovai – superato l’Esame di maturità – a dover scegliere. Era la prima volta. Fino a quel giorno, avevo visto scorrere la vita senza inciampi. Nessun blocco, nessuna esitazione. Trascorsi l’estate su I fratelli Karamazov e ne uscii prostrato, senza fede, ormai. Con il compito non facile della scelta universitaria di fronte. In realtà, avevo poche chances, perché mi sentivo da anni votato all’insegnamento, ma quando non si sia superata ancora la linea d’ombra, tutte le possibilità possibili si affacciano alla mente e ci piace baloccarci con l’idea che siamo liberi e che intendiamo restare tali, cioè mantenere aperte tutte le possibilità. Continuai ad arrovellarmi fino al momento della partenza per Roma, con i documenti ancora incompleti: mancava il nome della Facoltà universitaria. Nell’Ufficio postale di Piazza Bologna, sul bollettino dei versamenti, invece di scrivere Lettere, scrissi Filosofia. Decisi proprio lì, in quel momento. Anche successivamente, dissi a me stesso che scegliere Filosofia era non scegliere ancora: si trattava di una sorta di passaggio propedeutico a tutte le altre scelte. Immaginavo, come tutti i miei coetanei, che fosse tutto possibile, che si potesse scegliere tutto. Mi angosciava il pensiero che, una volta fatta la scelta definitiva, non sarebbe stato più possibile tornare indietro, al di qua del bivio su cui mi sembrava di essere accampato, per imboccare un’altra delle tante direzioni che mi ostinavo a tenere ‘aperte’. In realtà, era solo la mia mente che si avviluppava nei ragionamenti segreti intorno al da farsi, perché per la prima volta ne andava della mia vita. Io non volevo prendere decisamente la strada che dall’età di dodici anni, avevo visto chiara davanti a me: l’insegnamento. Mi sembrava che la vita offrisse molto di più. Non capivo perché la vita mi mostrasse molto di più, se io avevo già deciso cosa fare, considerato che il mio cuore non aveva dubbi su ciò che desiderava.

Successivamente, chiamai libertà il grumo di emozioni e stati d’animo che si rincorrevano disordinatamente, sotto la spinta di una mente che non cessava di vagliare ogni aspetto della situazione. Subito dopo la pubblicazione dei ‘quadri’ della Maturità, avevo avvertito violentemente la sensazione che gli spazi chiusi erano finiti, dissolti ormai. Avevo davanti a me una dimensione sconosciuta, senza confini. Era inebriante, ma faceva male al cuore. Era quella una linea di confine tra due tempi della mia vita? Ero felice di essermi liberato delle infinite costrizioni della scuola, ma lì mi sentivo anche al riparo. Al riparo da cosa? Perché avrei dovuto sentirmi in pericolo? Se di libertà si trattava, perché averne paura? Solo molto tempo dopo, imparai con Leopardi a dare un nome a quel sentimento misto che era già proprio della vita adulta: il timore che accompagna sempre la speranza.
Gli studi classici mi avevano abituato a ragionare in termini di libertà/necessità, come se la libertà si stagliasse sempre di fronte a quello che credevo il suo contrario, cioè la necessità ferrea di ciò che è come è e non può essere altrimenti. In realtà, la libertà ha di fronte a sé il nulla. L’angoscia che l’accompagna proviene dal chiaro avvertimento di quel nulla in cui ci ritroviamo tutte le volte che siamo messi di fronte a una scelta. Ero libero, per la prima volta. Ma non lo sapevo. Provavo soltanto un misto di paura e felicità.

L’arrivo all’Università fu accompagnato da un checkup riservato a tutte le ‘matricole’. L’internista mi trovò rigido, teso, al punto che si irritò con me, perché non riuscivo a rilassare la muscolatura addominale. Mi spedì dallo Psichiatra, che mi trattenne a lungo. Questi mi chiese se intendevo proseguire gli studi. Gli risposi sì, non poco perplesso per la sua domanda. Mi descrisse il mio stato di eccitazione, i circoli viziosi in cui si avviluppava la mia mente, i rischi per lo studio… Mi suggerì esercizi per l’igiene mentale e mi raccomandò di farmi una ragazza. Il colloquio fu lungo. Lo ricordo quasi per intero. Mi ritrovai per la prima volta di fronte a qualcuno che sapeva di me, senza avermi conosciuto mai. Il turbamento che mi trasmise non mi abbandonò più, per tutto il Corso di laurea, fino alla discussione della tesi, e oltre. Si trattava di mettere ordine nel cuore, di imparare a fare i conti con la realtà e altro ancora, ma quando si ha la sensazione di avere il vuoto alle spalle, è difficile trovare un terreno solido su cui consistere.
Solo il 1969, con la conoscenza della donna che poi avrei sposato, provvide a darmi un po’ di stabilità. Molte cose ancora dovevano succedere, però, perché io potessi dire di aver trovato un equilibrio.
Temo che la linea d’ombra non sia solo una linea. Che non si tratti di un confine che si attraversa una sola volta. Le scelte che si succedono nel tempo, ma soprattutto, le conferme e i riconoscimenti sono tanti. E tanti debbono essere, per poter abbandonare l’età precedente, se ci accade di venire dalla ‘provincia’, come era il mio caso, e dal Risorgimento, forse dal Rinascimento, se non dal Medioevo, come sembrava a me di venire.
L’educazione sentimentale ricevuta era fatta di niente: nessuno aveva avuto il coraggio di parlarci di sentimenti. Ci siamo sporti sulla realtà facendoci aiutare dallo studio della Letteratura. L’amore era quello di cui parlava Dante, poi quello di cui parlava Petrarca. Boccaccio già ci confondeva le idee. Ma non finì nemmeno con lui. Tutti continuarono a parlare d’amore. A chi credere? Evidentemente, si trattava di demolire le teorie inammissibili. Con quale criterio? Se avessimo avuto un criterio, avremmo saputo dire che cos’è l’amore.
Il difetto della vecchia scuola si riassumeva nel fatto che mancava il punto di vista del presente, uno sguardo sulle cose che sapesse dare ordine e misura, aiutando a discriminare, a sceverare vero da falso.
Ai miei alunni, all’altezza del terzo anno del Liceo scientifico, avrei spiegato, poi, che la visione cortese della donna è spuria, perché negazione della donna; quelle che seguirono, fino a Dante, assumevano astrattamente l’amore e la donna, non erano espressione del rapporto con una donna reale. Solo a partire da Petrarca è possibile parlare di una reale esperienza d’amore. E il petrarchismo si protrasse fino a tutto il Settecento. La rivoluzione romantica mise l’accento sul soggetto amoroso, esasperando il senso delle cose: malattia del desiderio, era proprio quello che non ci voleva per un’età come quella adolescenziale in cui si tende a sposare l’infinito e la verità assoluta, la purezza e la fedeltà… Anche questa visione delle cose sarebbe stata cosa buona ‘demolire’. Ma la vecchia scuola si limitava a parlare di Letteratura, quindi non era dato sapere fino a che punto fosse utile seguire le suggestioni che provenivano da quei modelli di comportamento. Non bastarono nemmeno quattro anni di Filosofia, per arrivare a darmi un’educazione sentimentale. Solo la prova di realtà offerta da una donna reale avrebbe contribuito a bonificare il campo, ma restavano dubbi su quello che accadeva, sull’esperienza amorosa in corso, sul nome da dare alle cose.
Il 1968 d.C. segna per me la linea di spartiacque tra il vuoto di Educazione e la scoperta della vita, considerata in tutte le sue forme. Il ciarpame politico, ideologico e perfino storico su quell’anno cruciale della storia di una generazione è ciò che disprezzo di più. Nell’autunno del 1967 furono spazzati via dentro di me Medioevo e Rinascimento, Romanticismo e Risorgimento, a vantaggio della storia del mondo che si dischiudeva davanti ai miei occhi, aiutandomi a ridefinire ogni cosa, anche Medioevo e Rinascimento, Romanticismo e Risorgimento. Scoprimmo di essere Corpo, di avere una Mente che pensa: noi credevamo che pensassero solo i Filosofi… Nel magma incandescente delle lotte studentesche, apparve un’umanità nuova, che era lì, tutta davanti a me. Anche le mie cose – le persone che avevo sempre amato – ne uscivano ridefinite. Niente era più come prima. La sessualità e la passione politica mi fecero nascere a nuova vita.
Ma restava da definire la scelta fatta: pensare all’insegnamento voleva dire immaginare Lettere, l’insegnamento della Lingua e della Letteratura, mentre io mi ero iscritto a Filosofia. A partire dal 1965, quando la scoprii a scuola, la Filosofia non ha mai smesso di accompagnare la mia vita. Sono trascorsi quarantasette anni, ormai, eppure sento ancora forte il bisogno di proiettare ogni cosa in una dimensione filosofica. Nello stesso tempo, non ho cessato di interrogare i poeti e i narratori, perché il commercio tra pensiero e poesia che contraddistingue ogni forma d’arte, compresi il Cinema, la Musica e le arti figurative, ci fa dire che molte verità sono racchiuse nelle immagini artistiche più che nei discorsi della Scienza e della Filosofia. Per questo, poi, non disdegnai di insegnare per trentacinque anni Lettere, cioè Lingua e Letteratura, pur essendo laureato in Filosofia.
Ad aiutarmi in questa scelta intervennero le circostanze. Nel 1975 mi trovavo in Trentino, per una lunga supplenza di Lettere. Non fui mai chiamato per una supplenza di Filosofia e non c’erano cattedre di Filosofia, quando dovetti scegliere il Corso di abilitazione all’insegnamento. Anche in quel caso, scelsi l’abilitazione all’insegnamento delle Lettere, senza esitazioni. La Filosofia avrebbe continuato a guidare la mia vita. Subito dopo, vennero un incarico annuale, l’incarico a tempo indeterminato, l’immissione in ruolo, il trasferimento, l’assegnazione di una cattedra, la sede definitiva, la ricostruzione della carriera. La via era tracciata ‘per sempre’. Avevo accettato ogni passaggio della mia ‘carriera’ di insegnante senza obiettare nulla: mentre insegnavo ai miei alunni i segreti della Lingua e della Letteratura, continuavo a praticare privatamente lo studio della Filosofia, che era ormai una pratica di vita per me. Mi accadeva di dire sempre: Insegnante di Lettere, laureato in Filosofia. Era un po’ come dire che ero prestato alle Lettere. La mia natura era un’altra.

Nelle settimane passate tra il novembre e il dicembre 1967, trascorrevamo da una Facoltà all’altra, in cerca di qualcosa che non avevamo trovato ancora, a dispetto dell’iscrizione a una Facoltà universitaria. Di fronte alla prospettiva delle sessioni d’esame che ci aspettavano – giugno, ottobre, febbraio, giugno, ottobre… – mi resi conto del fatto che stare sui libri per quattro o dieci anni era la stessa cosa: una volta imboccata una strada, si trattava solo di percorrerla fino in fondo, senza soste. Pensavo ai sei anni di Medicina e ai quattro che sarebbero seguiti per la specializzazione in Psichiatria. Ero convinto di aver capito finalmente quello che volevo dalla vita. Rientrai a casa pieno di entusiasmo. Chiesi a mio padre il permesso di fare il passaggio di Facoltà, ma lui, già spaventato dal fatto che avessi scelto di proseguire gli studi oltre la Scuola Media Superiore, si preoccupò del fatto che potessi essere solo attratto da una chimera. Per lui, passare da 4 a 10 anni non era cosa chiara e ‘pacifica’ come per me. Disse di no. Così si aggiunse nel mio cuore, mentre studiavo Filosofia, l’interesse, la passione, la propensione allo studio della Psichiatria, a cui si aggiunsero subito Psicologia e Psicoanalisi. Da allora, non ho mai smesso di trascorrere dalla Letteratura alla Filosofia alla Psicologia alla Psichiatria alla Psicoanalisi, cercando in ognuna risposte ai problemi dell’esistenza. Per ognuna di queste discipline, poi, non ho mai smesso di cercare le relazioni con tutte le altre. Nel 1972 mi laureai in Filosofia con una tesi, che avevo iniziato a preparare al secondo anno, sui rapporti tra Filosofia e Psichiatria, segnatamente sull’influenza esercitata dal pensiero di Sartre sull’antipsichiatria di Laing e Cooper. Non avevo smesso di praticare le regioni di confine tra le discipline, anzi, era solo l’inizio.

Nel corso degli anni, quando ci intrattenevamo a discutere di Didattica, a scuola, un Collega mi ripeteva spesso che ero avvantaggiato nella cura della Didattica di Lingua e Letteratura dagli studi di Estetica fatti all’Università. In realtà, tutto quello che mi sosteneva sulla cattedra proveniva da studi che avevo proseguito senza interruzione su tutto il campo della Filosofia del linguaggio, della Linguistica generale, della Linguistica testuale, della Semiotica, dell’Estetica, della Teoria della letteratura scoperto all’Università. I quattro anni di Filosofia mi avevano fornito le ‘bibliografie’ e le ‘enciclopedie’ su cui avrei poi lavorato nei decenni successivi. Ancora oggi, oltre il passaggio alla pensione, sono impegnato su testi teorici e su Autori scoperti in quegli anni. Il rapporto tra Etica ed Estetica, tra Etica e Letteratura, è questione sempre aperta.

Lungo i miei trentacinque anni di insegnamento, ho avvertito sempre come bordo dell’esperienza, non vissuto, la parte di me restata in ombra: la Filosofia prima, la Psichiatria poi. Avrei dovuto insegnare Filosofia? Perché successivamente non ho mai fatto niente per passare a quell’altro insegnamento? Avrei dovuto fare lo Psichiatra? o lo Psicoterapeuta? Era quello che volevo veramente? Perché non ho fatto mai niente poi per renderlo possibile?
Dentro l’esperienza di volontariato, che dura dal 1989, ho avvertito la stessa sensazione di ‘inautenticità’. Avverto ancora oggi la sensazione di essere fuori posto; che debba sempre definire accuratamente, in modo ossessivo, i confini del mio intervento, come se temessi di essere accusato di invadere il campo degli Psicoterapeuti: il lavoro sociale che svolgo come Educatore, mentre sono emerse da qualche decennio le figure degli Educatori professionali, è ‘autorizzata’ in Exodus, la realtà nella quale mi sono formato per venti anni esatti, ma è sufficiente sentirsi Educatori, senza possedere le ‘coordinate’ professionali che contraddistinguono l’azione educativa al di fuori della Scuola? L’autoeducazione è sufficiente?

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