Venerdì 29 marzo 2013
CAMMINARSI DENTRO (470): Dopo l’amore
È un dolore diverso e difficile da sopportare. Non colpisce una regione del cuore tra le altre. Ne esce alterato il senso di tutta un’esistenza.
Ci siamo affacciati alla vita in un mondo in cui il matrimonio era indissolubile, l’amore eterno, l’esperienza sentimentale del tutto oscura: la cultura romantica era ancora ‘operante’: la sfera degli affetti confinava con l’assoluto e l’eterno. Nessuno era in grado di ‘pensare’ i sentimenti: essi apparivano nella nostra vita misteriosamente e sembrava che dovessero durare per sempre. La loro genesi, lo sviluppo, la durata erano questioni che nessuno si poneva. Si trattava di doni della vita sui quali nessuno osava interrogarsi. La mancanza di chiari riferimenti concettuali e l’assenza di ‘avvertimenti’ sul da farsi portavano tutti a credere che ci si dovesse affidare alla loro ‘bontà’, salvo poi affrontare separatamente la questione dell’errore e quella del male come prodotti della libertà personale: ogni errore e ogni colpa andavano ascritti alla sfera della responsabilità personale: i sentimenti negativi potevano essere riguardati come oggetti da studiare e su cui discutere. Direi che soprattutto l’amore conservava l’aura di mistero che aveva guadagnato nel tempo.
Se avessimo avuto ‘intelletto d’amore’, avremmo tenuto insieme luce e ombra, illuminando la zona luminosa, magari per decidere meglio di che cosa tutta quella luce fosse fatta, senza trascurare gli ‘avvertimenti’ che pure ci venivano dall’esperienza e che avrebbero renderci consapevoli di quanta ombra ci fosse in quell’esperienza.
È stato detto autorevolmente che l’amore non è cieco, anzi insegna a vedere. Ma quanta ‘sapienza’ si richiede per arrivare a ‘vedere’ e poi ad agire sulla base di ciò che si è compreso dell’altro? Perché, pure in mezzo a questo chiaro vedere, non riusciamo a decidere quasi mai che non vale la pena di inaugurare una relazione che si presenta già con caratteri a dir poco problematici? La conoscenza dell’altro è possibile solo dentro la relazione sentimentale ‘conclamata’? Perché non riusciamo a dare (il giusto) peso agli ‘avvertimenti’ dell’esperienza e al giudizio di coloro che, talvolta, ci mettono in guardia dal proseguire sulla strada imboccata?
Abbiamo impiegato quasi tutta la vita a districarci nella foresta di sentimenti, ostentando nella vita quotidiana una certa ‘sicurezza’ sul nostro sentire e sulla possibilità di intrecciare relazioni sentimentali soddisfacenti. Fino a quando non abbiamo scoperto che eravamo impegnati in una battaglia per il riconoscimento senza fine. In realtà, ogni cosa significativa e sana vive nel tempo, è fatta di momenti di verifica che non possono essere rimandati all’infinito: abbiamo appreso a nostre spese che modi sbagliati di intendere i rapporti uomo-donna, ad esempio, influenzano pesantemente la relazione affettiva, interferendo con i modi di risposta alla domanda d’amore. Ambivalenza e irresolutezza, che sono le caratteristiche di fondo della sensibilità romantica, sono la peste che trasforma poi ogni cosa, alterando il fragile equilibrio che sempre tiene insieme ogni relazione che si basi sulla reciprocità dello scambio. Senza tale chiara volontà, siamo di fronte alla patologia del sentimento, alla malattia dell’amore. Ci sono amori malati che bisogna aiutare a morire, per salvare la propria salute mentale e tornare a vivere in modo sano. Quando ci accada di essere noi l’oggetto del rifiuto, se l’esito finale tarda a manifestarsi, per la pura volontà di perpetuare un rapporto che non si vuole troncare, a noi resta il comito di gestire il malato terminale. Bisogna aiutarlo a morire. E non è facile.
È un dolore difficile e diverso da sopportare. Quando lo stato di sospensione e la vana attesa si fanno deserto degli affetti, e ogni contatto non ci recherà più alcun conforto, ci ridurremo ad oscillare tra buone maniere e recriminazione. Come se ci fosse qualcosa da salvare ancora!
Ci siamo chiesti negli ultimi decenni cosa si debba raccontare ai ragazzi in materia di sentimenti, particolarmente oggi, in un tempo in cui si parla solo di emozioni, raramente di sentimenti. Si può dire che l’amore è un sentimento ‘a tempo’, che di solito dura qualche anno, difficilmente per tutta la vita? La realtà delle tante unioni felici si presenterebbe subito alla mente come un argomento efficace contro tanto ‘realismo’. Resta il fatto che il costume è cambiato. Il modo di sentire collettivo si è fatto pragmatico, cioè meno propenso a sposare teorie generali buone per tutti i casi. Ognuno di noi è portato a pensare che il campo degli affetti è forse il campo in cui la libertà personale si manifesta più ampiamente. Siamo, tuttavia, ancora soli di fronte alla vita e al suo ‘spettacolo’: le cose si manifestano a noi in modi sempre inediti, anche se ci affanniamo a vedere sempre lo stesso nelle più diverse situazioni, per quel bisogno di identità che impone il ricorso all’immagine della continuità della vita. Ad essa applichiamo schemi di comodo, per metterci al riparo dalla tempesta delle passioni e dalle intermittenze del cuore. Giuriamo fedeltà ed eternità per gli affetti che proviamo, ma ci scontriamo con il venir meno degli stessi. Si smette di amare, per la gravità delle incomprensioni, per l’insuperabilità dei fraintendimenti, per la volontà di non perdonare.
È un dolore diverso e difficile da sopportare, perché non c’è più amore. A questo non eravamo preparati. Abbiamo saputo affrontare tutto, le nascite e le morti, l’esaltazione per ogni nostra nuova nascita, ma anche l’afflizione per le perdite per cui non eravamo pronti. Questo dolore è più forte della stessa morte. Non perché l’amore fosse grande e abbracciasse ogni cosa in noi, ma per il fatto che questo abbandono ha il sapore del rifiuto, che si accompagna ad altri rifiuti che stiamo vivendo negli stessi mesi e nelle stesse ore. A questo dolore non siamo riusciti a dare ancora un nome.
È un dolore diverso e difficile da sopportare. Ne esce ridefinito il senso di tutta un’esistenza, perchè l’amore per noi non è solo l’amore per una donna: non si è trattato solo di una storia d’amore. Quando all’oggetto d’elezione sono state riservate le cure che nemmeno una figlia ha ricevuto e sono stati compiuti i gesti che avrebbero dovuto assicurare per sempre il riconoscimento e l’amore ricambiato, non è possibile fare a meno di pensare che si è trattato di un sentimento mal riposto, di una fiducia immeritata. Il tempo del disamore porta inevitabilmente con sé il disincanto. All’incanto perduto succede fatalmente la prosa quotidiana. Tutte le forme di deprivazione che vanno a costituire il tempo-dolore non possono essere compensate né surrogate da alcunché. Per chi scrive non si è trattato di una canzone di Cole Porter.