Tacere il silenzio

Lunedì 30 settembre 2013

CAMMINARSI DENTRO (475): Tacere il silenzio

Tra i compiti maschili, tra i doveri taciti che ogni maschio dovrebbe imparare a riconoscere e praticare c’è il silenzio su di sé, su quella parte d’esperienza difficile e dolorosa che si richiede per conservare dignità e rispetto di sé: mi riferisco alla conduzione di sé nella lunga fase dell’elaborazione dell’abbandono.

Arrivare a concepire tanto non è facile, e non è detto che ci si arrivi. Si passa attraverso atteggiamenti contrastanti e diversi, dalla recriminazione al mugugno al lamento accorato, alla domanda sterile.

Si fanno prove a non finire, per arrivare alla certificazione certa della fine di una storia d’amore. Si richiede forse un prolungato estenuarsi in pratiche residuali perché dall’altra parte non si vede un chiaro distacco e un esplicito congedo con dichiarazioni verbali del disamore ormai compiuto.
Anche se esperti di illusioni e competenti in materia, per aver lungamente lavorato su di sé, si prolunga all’infinito la coda sentimentale: non è sufficiente ricevere chiari segni della fine del sentimento dall’altra parte: il ‘disinvestimento’ non è semplice ritiro, un ritrarsi e basta. Occorre ridefinire porzioni spesso grandi della propria esistenza, perciò si prende tempo.

Abbiamo già discusso la falsa alternativa sempre supposta vera tra brusche rotture e strascico infinito di domande senza risposte e compagnia bella, come direbbe il giovane Holden.
Chi preferisce la rottura improvvisa e traumatica è convinto del fatto che finirà lì, che non ci sarà un lungo seguito di recriminazioni e tutto il resto. 
Chi abbia sperimentato l’una e l’altra cosa sa bene che comunque si richiede una ‘cura’ lunga anni, anche decenni.

Solo chi non sa delle cose d’amore e non abbia conosciuto l’abbandono sposa la tesi della bontà degli abbandoni secchi, senza contatti ulteriori e lunghe spiegazioni e accompagnamento funebre. Da noi si chiama accompagno.
Non che sia indispensabile l’accompagno del partner, per carità! Alla bisogna può andar bene chiunque, anche uno sconosciuto che si riveli curioso di noi e voglia darci buoni consigli, non potendo dare cattivi esempi.

Provvede sempre il tempo a condurci nella zona importante che ci preme qui registrare e descrivere.

Il lavoro più importante è quello che si fa da soli, al riparo da sguardi indiscreti, ma soprattutto poco attenti.
Magari si confida a persone diverse, amici ‘alla lontana’, il fallimento della propria vita sentimentale – perché non si tratta soltanto della fine della storia più recente – con lucidità e voce ferma, per scoprire volta per volta quanto sia inutile farlo.

L’esercizio più importante è quello che si riesce a portare a buon fine con il partner involato.
Non basta equilibrio, misura, distacco, serenità e compagnia bella. Traspare sempre, nei momenti più impensati, la tendenza evidente a provare fastidio, quando non risentimento, per antichi vizi del partner che, magari, non riesce a correggere davanti a noi.

La soluzione più efficace è il silenzio, ma soprattutto la capacità di tacere il silenzio, cioè di non stare ancora lì a dire “non rispondo per questo motivo…” e “non telefono per quest’altro motivo…”. Bisogna ricorrere alla dissimulazione onesta, cioè alle bugie inventate a fin di bene, per nascondere ogni più piccola emozione che possa innescare ancora i circoli viziosi che hanno generato la lunga coda che non finisce mai.
Il partner involato continuerà a stuzzicare e ‘provocare’ in noi emozioni negative, quando non distruttive – come ira, desiderio, illusione -, ma è proprio questo che occorre imparare a fare: tacere senza dire nulla a nessuno del proprio silenzio.

Ci apparirà chiara la ragione e l’utilità di questo tacere quando avremo provato stanchezza per l’umiliazione in cui ci siamo cacciati ogni volta che avremo mostrato la nostra vulnerabilità a chi non la rispetta più, ammesso che l’abbia mai rispettata.

Tacere sul nostro silenzio è il modo più efficace per tornare a prendersi cura della propria dignità: se amore è scoprire la fragilità dell’altro e non approfittarsene (Hegel), solo con un estremo atto di pudore – cioè rendendo ‘inconfessabile’ ogni più personale moto dell’anima – riusciremo a credere alla timida ala della speranza, che ci fa scorgere come desiderabile una più respirabile aura intorno a noi, anche se non si intravvede all’orizzonte alcuno sguardo benevolo che non renda vana l’attesa.

Il compito più difficile è restituire valore alla propria dignità, dopo aver lungamente condiviso quanto di più personale e di più intimo possediamo, convinti che solo dall’amore e da un’intensa vita di relazione potessero derivare tutte le ragioni per sentirsi vivi e utili.

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