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Mercoledì 12 ottobre 2016
Il tempo dell’elaborazione (3) – Oltre il silenzio
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La terra di nessuno in cui ci ritroviamo a consistere precariamente oggi ci è nota. Più che di vuoto, si tratta del nulla che precede ogni scelta, la condizione di chi si ritrovi di fronte a un nuovo non ben definito ancora. E’ la nostra libertà che assume i contorni della sospensione e della dilatazione a dismisura del tempo della coscienza, considerato che lo stesso spazio era occupato in precedenza da relazioni umane che sono venute meno e da compiti da cui siamo stati abilmente esclusi. Quello che ci ritroviamo a ‘chiedere’ senza esitazione, direi perentoriamente, oggi, è il pieno rispetto della nostra identità e del nostro valore. A questa sola condizione siamo disposti ad uscire di casa per andare incontro al mondo. Non siamo chiusi orgogliosamente nella nostra beata solitudine, che non siamo interessati a considerare la sola beatitudine possibile. Siamo in buona compagnia con noi stessi, ma preferiamo essere contaminati ancora dal contatto con l’umanità altrui, soprattutto con l’impegno politico e sociale.
α Il vuoto è propriamente la mancanza di senso in cui precipitano le cose prima di noi, cioè prima che interveniamo a dargliene uno con il lavoro quotidiano della coscienza che si impegna nella contrattazione dei significati con gli altri, perché un mondo sostanzialmente estraneo a noi si trasformi in una realtà durevolmente condivisa. Se la semiosi illimitata costituisce l’attività prevalente della mente, segnata com’è dalla preoccupazione etica di accettare quanto pure viene dagli altri e che deve trovare posto nella nostra coscienza, perché si dia vera comprensione delle ragioni degli altri, la condizione tossicomanica è contraddistinta dal lavoro ‘contrario’, di tipo evacuativo: le condotte d’abuso, infatti, come ogni altra forma di dipendenza, mirano ad espellere dall’area della coscienza tutto ciò che è fonte di dolore, la fatica del concetto – per sconfiggere equivoci e malintesi, ambiguità e fraintendimenti -, il lavoro di traduzione e di interpretazione dei propri e dei vissuti altrui, la stessa fatica di esistere, cioè di realizzare l’istanza di fondo del proprio desiderio.
α Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo.
Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e bisogni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qualsiasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tentare di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.
(da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)
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