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Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e bisogni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qualsiasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tentare di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.
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Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo. (da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)
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