Il tempo dell’elaborazione (6) – Il tempo lungo della simbolizzazione e della categorizzazione del nostro sentire

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Venerdì 20 gennaio 2017

Il tempo lungo della simbolizzazione e della categorizzazione del nostro sentire

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30 ottobre 1940
Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, naturale come l’aria. E’ impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si preferisce la crisi dell’urlo alla sua attesa. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta – sia pure per intensificarsi. Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno – consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi 1952, pag.191

L’esito della pratica dell’elaborazione, che viene esercitata sulla nostra esperienza del dolore, ci mette davanti alla potenza del simbolo. Solo se accompagnata dai necessari processi di simbolizzazione, e se quest’ultima è preceduta da un’accurata e precisa categorizzazione del nostro sentire, l’elaborazione sortisce effetti trasformativi: il dolore ci trasforma, se sappiamo condurre il lavoro su noi stessi nella maniera dovuta.
Intanto, bisogna attraversare l’esperienza del dolore fino in fondo, senza risparmiarsi nulla che ci venga riservato in sorte: essa è preceduta e accompagnata da estenuazione e dolore della mente e angoscia e tedio; è scandita nel tempo, è percezione pura del fluire del tempo-dolore, che non smette di scavare dentro di noi, lasciandoci nella confusione e nell’errore. Queste ultime condizioni dello spirito postulano il complesso lavoro di analisi dei contenuti di coscienza, per distinguere pazientemente emozione e concetto e finalmente correggere ciò che c’è da correggere, se ci troviamo di fronte a scarsa esattezza del sentire. La trasformazione avviene in noi, se sapremo riconoscere la realtà dell’altro, così come essa è.
La durata del lavoro di elaborazione conseguente ad abbandono o perdita può durare anche per decenni, fino a quando non si arrivi a trovare la cifra dell’accaduto, se la ferita non cessi di sanguinare perché il lavoro è finito, avendo il tempo trovato il suo compimento. Ogni indugiare ed insistere ed ostinarsi nel chiedere senso, infatti, è segno di un tempo che non cura, come un ritrovarsi in mezzo al guado, senza meta e senza direzione di marcia: ne va di noi, del modo di consistere nel tempo, del raccordo da istituire di nuovo tra identità e memoria, dopo che il ricordo abbia agito sulla vecchia identità per congedarsi da essa; ma decidersi, cioè staccarsi dal vecchio, non basta, perché bisogna alzarsi al mattino e andare incontro al giorno, avendo scelto se farsi guidare da un demone buono o da un demone cattivo.

L’esercizio dell’interrogazione infinita sarà fruttuoso, se non ci stancheremo di ripercorrere la strada fatta, a costo di scoprire ogni volta di nuovo che non è ora, non è l’ora del nuovo sentire: il nunc in cui ci ritroviamo a consistere, per quanto sia un tempo dilatato oltre il ritmo dell’orologio, se pure è il tempo della nostra coscienza, lungo quanto si vuole e lento e poco cadenzato, non porterà con sé buone nuove per noi, se non interverrà a dargli senso – significato e direzione – una categorizzazione più ampia, la riconsiderazione dell’incidenza delle ‘vecchie’ categorie a vantaggio di un orizzonte di senso che non le comprenda più. E’ questo uno dei passaggi più duri per noi: emanciparsi da modi di guardare alle cose su cui siamo stati fermi per ampie porzioni della nostra vita non è gesto, azione, semplice decisione. Non è difficile dire ‘no’ a ciò che scopriamo essere causa del nostro dolore; più difficile ‘staccarsi’ da quello che siamo stati, e poterlo contemplare da riva come fa il naufrago che si volga a considerare ancora il pericolo passato. Se non arriviamo a vedere il pericolo, se non ci sentiamo all’acmè di una prolungata esposizione al pericolo, non coglieremo il rischio di essere colpiti ancora e di restare prigionieri di ciò da cui pure vorremmo liberarci. Quando si tratti di un oggetto d’amore, di persona lungamente amata, non è facile modificare il suo ‘significato’, attribuendole quel tanto di negativo che pure si richiede, perché acquisti le caratteristiche di ciò che ci colpisce, che ci ferisce, ci abbatte, perché sia possibile infine perseguire il fine del ‘taglio’, del distacco, della rottura, dell’abbandono di ciò da cui siamo stati abbandonati. Esatto sentire vuol dire proprio questo: avere il coraggio di rinunciare all’idealizzazione dell’oggetto d’amore, per proseguire sulla strada dell’analisi critica dei gesti, delle parole, degli atti compiuti nei nostri confronti, avendo cura che ci si riferisca a cose precise e non a sensazioni, vaghe intuizioni, allusioni, supposizioni.

Un esempio forte del modo più corretto di procedere all’eutanasia di un amore è partire dall’idea per niente scontata che «l’amore è sempre ricambiato», come sostiene Jacques Lacan. Se non è così, se abbiamo fondati motivi per dubitare dei sentimenti del nostro partner, non ci resta che sottoporre a verifica stringente ogni manifestazione di sé che l’altro orienti verso di noi, senza trascurare mai gli effetti che producono su di noi le sue manifestazioni di sé. In assenza di benessere, se addirittura si provi disagio, sofferenza, ci sono già le condizioni per dubitare della bontà di un sentimento.

α La nostra prima ‘fonte’ in materia di Simbolo è la voce Simbolo dell’Enciclopedia Einaudi – volume dodicesimo (1981), pp.877-915 -, curata da Umberto Eco.
Con il saggio Il modo simbolico, contenuto in Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi 1984, la voce di Enciclopedia viene ripresa e ampliata

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