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ENTRANO IN SCENA I SENTIMENTI
PESANTEZZA (1) Quando la pesantezza non abbia ancora perso la propria consistenza.
20 agosto 2018
Non basta lasciare che affiori dal magma indistinto un’immagine o una catena di parole. Occorre energia. Ma quando essa preme, assieme all’immagine o alla catena di parole, pesa. Ne sentiamo il peso. Sarebbe più corretto dire che si impone la pesantezza di un dire che fuoriesce impetuoso, senza ordine né misura. Spesso ci sorprendono enfasi e sovrabbondanza di parole. Vorremmo essere scabri ed essenziali, come acque di lago che si perdano nella pianura circostante, non torrente né fiume. Non l’energia del discorso è richiesta ma proprio la forza fisica che ci spinge ad agire, ad affrontare tutti gli inciampi, senza lasciarci spossati, come quando, dopo l’amplesso, il desiderio sembra smarrire la sua meta.
«Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio».
Fin qui Calvino, che nella prima delle sue Lezioni americane (1988), dedicata alla Leggerezza, conferisce alla pesantezza pari dignità rispetto al suo opposto. Nel testo, tuttavia, non ritorna più su di essa, lasciando quasi a noi il compito di esplorarne il ‘territorio’.
Abbiamo vissuto tutti la condizione di chi si sia sentito eccessivo, per aver parlato troppo e male; fuori posto, per aver indugiato a lungo in una casa in cui non si sia sentito accolto; residuale, per aver continuato a vivere un’esperienza ormai esaurita… E’ facile, a cose fatte, concludere che bisognava misurare le parole, che bisognava andar via, che occorreva congedarsi da una relazione ormai ‘intransitabile’. La misura del linguaggio non è sempre già data. La capacità di riconoscere le situazioni e prenderne atto dipende dagli stati della nostra mente, che sono registrati bene dalle emozioni: al culmine dell’elaborazione del tempo vissuto ci allontaniamo dai luoghi del disagio e del dolore. L’eutanasia di un amore, come di ogni altro sentimento positivo, non è un gesto, una decisione: solo in fondo all’elaborazione delle ragioni di un errore e dopo aver consumato tutti i termini dell’illusione che ci teneva ancora dentro relazioni sbagliate, arriviamo a congedarci senza voltarci a riconsiderare il naufragio da cui siamo fuggiti. Quante volte abbiamo sentito esaltare la raffinatezza, la signorilità, il garbo, le maniere, il modo di porgere di chi solo questo si aspettava da noi, per non sentire il peso della nostra esistenza, l’ingombro dei nostri lunghi racconti, la domanda muta d’amore! Non abbiamo forse riconsiderato infinite volte i nostri inemendabili errori, per aver alzato la voce, per aver accusato senza prove, per aver fatto torti che hanno ferito e arrecato un dolore che si è protratto per anni? Non siamo tutti pronti a riconoscere che è da preferire una persona che inceda con leggerezza, che sappia evitare le secche del discorso, che conosca i modi per evitare i conflitti, anche se con il ricorso all’ipocrisia e alla simulazione? Non abbiamo sempre anteposto le ragioni dell’astuto Odisseo alla pietas di Enea come alla parresia di Socrate? Entrano in scena i sentimenti: qui, entra in scena la pesantezza. Di essa soltanto parleremo, e lo faremo a lungo, perché le cose di cui siamo stati spinti sempre a dolerci appaiano sotto una nuova luce. Nella società del risentimento, occorre fare posto a un modo di consistere che non può essere riguardato a lungo come un ‘negativo’ soltanto. Che si parli di etica del risentimento, ad esempio, è cosa che merita lunghe riflessioni e parecchi approfondimenti.
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PESANTEZZA (2) Si tratta sempre di scegliere se “togliere peso” alle cose oppure no.
21 agosto 2018
L’attitudine all’ascolto – nelle relazioni d’aiuto – richiede capacità di accettazione: che si contempli sempre la possibilità che la parola dell’altro sia vera, anche solo per un po’. Nel cuore di un colloquio si ripropone sempre una chiara asimmetria tra chi vive nel disagio e chi possiede ‘risposte’ al disagio: naturalmente, non si tratta mai di verità calate dall’alto, dall’alto di un sapere che non è mai dato. L’unico sapere possibile è quello che non possediamo: il senso generale dell’esistenza dell’altro. Per questo, non dovremo cadere mai nella trappola dell’esperto, comportandoci come se le nostre conoscenze e le nostre esperienze fossero utili nella comunicazione emotiva avviata. Addirittura, ci svuotiamo completamente, per farci ‘vaso di scelta’, cioè per rendere possibile l’ingresso dell’altro nella nostra anima. Tutte le sue ragioni ci appariranno subito pesanti, talvolta assurde, incomprensibili. Segretamente, siamo anche smarriti. Ci comportiamo, tuttavia, come se quello che l’altro mette in comune con noi fosse ammissibile, plausibile, interessante. Non potremo ‘recitare’ in nessun momento, pena la sfiducia che genereremo nel nostro interlocutore. Se immaginate settimane e mesi e anni – anche decenni – di ascolto attivo, di lavoro di motivazione orientato alla presa di coscienza nell’altro della possibilità di un’altra vita, vi apparirà chiaro quanto possa essere ‘pesante’ sostenere colloqui sempre uguali, per interi anni in cui non accade nulla, senza nessun progresso. Anche questo è pesantezza.
Ora immaginate grandi porzioni della nostra vita, intere epoche in cui non si dia mai niente di ‘nuovo’, che la vita scorra sempre uguale a se stessa, che il nostro partner non abbia mai bisogno se non di quello che ha già, essendo comodamente adagiato nelle sue rigide abitudini; che ci rimproveri ad ogni più innocente tentativo di uscita serale, al bisogno di nuovi amici, di passeggiate; che contempli solo le proprie esigenze e preferenze, perfino nella scelta del cibo; che pretenda, finalmente, da noi un impegno a cambiare, come se scegliere l’immobilità e la ‘conservazione’ fossero un ideale di vita, il cemento di una relazione sentimentale… Se avrete osservato simili condizioni nella vita di un parente o di un amico, comprenderete come pesantezza significhi talvolta mentalità ristretta e autoritarismo, scarsa propensione alla cura, alle premure, alla comprensione dei bisogni dell’altro. I processi di individuazione, che non appartengono solo all’età evolutiva, possono interessare l’età adulta e il tempo che resta. Se dalla parte nostra si darà una spinta forte al cambiamento, perché le occasioni favorevoli della vita ci chiamano; se nuove evidenze si imporranno in noi, suscitando un nuovo sentire, occorrerà avere di fronte un partner pronto a sua volta al cambiamento, che non tema la nostra crescita spirituale e l’apertura al nuovo che ci viene incontro. Ogni perplessità e malinconia e timore potranno rendere vischiosa la nostra coscienza, consegnandoci alla zona grigia in cui dissimulazione onesta e menzogna si confondono. Non intendiamo, con questo, esaltare la leggerezza come stile di vita e attitudine morale, come se valessero solo le ragioni di chi è chiamato altrove dalle circostanze… E’ indubbio, tuttavia, che una relazione umana sia fortemente sollecitata in direzione centrifuga, qualora prevalgano le ragioni di un solo partner. La sfida del senso vissuto, qui, si gioca sul terreno dell’accettazione reciproca. Fin dove è possibile il ‘sacrificio’ di sé, riusciremo a ‘salvare’ la relazione, senza patire troppo. Se il peso delle richieste è eccessivo, e sordo ad ogni richiamo, le sollecitazioni negative sottoporranno il ‘sistema’ al rischio della crisi irreversibile. Ci ritroviamo tutti, prima o poi, di fronte all’esperienza della pesantezza. Si tratta sempre di scegliere se ‘togliere peso’ alle cose oppure no. Ci interroghiamo su come sia possibile essere ‘leggeri’, senza scadere nell’ipocrisia e nella menzogna. D’altra parte, la schiettezza a tutti i costi aiuterà le nostre relazioni? Dobbiamo dirci sempre tutto? Evidentemente, no. Resta il compito della ricerca paziente della comprensione reciproca, che acquista senso nel momento in cui impariamo a lasciar andare l’altro, perché ascolti il suo desiderio e si lasci guidare dove i ‘capricci’ del desiderio stesso vorranno portarlo. Portare il peso dell’esistenza altrui è possibile a condizione che si accetti la scissione tragica che contraddistingue tutte le relazioni significative.
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PESANTEZZA (3) Il peso dei ricordi
22 agosto 2018
«L’angelo è metafora della capacità della mente di uscire dal cerchio chiuso del nostro orizzonte tridimensionale. L’angelo è rappresentazione. La sua funzione non è tanto quella di rivelare all’uomo ciò che è nascosto, di manifestare l’inattingibile, ma piuttosto di indicare l’inattingibile, di custodirlo. In Rilke gli angeli appaiono inizialmente sotto una luce di trionfo, ma solo per mettere in risalto la distanza dalla creatura umana. Ma è proprio questa distanza a costringere l’angelo a entrare in rapporto con l’uomo. E’ così che l’angelo si fa sempre più triste. La sua tristezza deriva dal peso che schiaccia l’uomo: il ricordo (die Erinnerung). L’angelo di Rilke è memore della caduta e perciò è oppresso da una tristezza inesorabile. Ed è questa stessa tristezza che lo avvicina all’uomo…. Se si vogliono tenere insieme polarità distinte come parola e silenzio, manifestazione e invisibile, l’angelo è la figura “necessaria” di questa rappresentazione». MASSIMO CACCIARI, Intervista a Panorama, 9 febbraio 1986
È negli interstizi del tempo (ri)vissuto che andiamo a frugare, in cerca dei nostri frammenti, mossi dalla speranza di veder comparire ben articolati ‘discorsi’ e ‘storie’, segretamente convinti della possibilità di intervenire su di essi, per correggere qua e là, integrare, chiarire… I Padri della Chiesa dell’XI secolo sapevano bene che nemmeno Dio può modificare il passato. Per questo, ci prende la malinconia del così fu di niciana memoria: ci troviamo di fronte ad un irrevocabile, un irredimibile, un imprescrittibile, un imperdonabile. Chiamiamo errore inemendabile tutti gli episodi che riemergono dolorosamente nelle età ulteriori della vita, quasi a compensare con angoscia e terrore quel che non abbiamo voluto considerare errore. Siamo stati bravi a ‘superare’ e ‘oltrepassare’, con coraggio e spirito resiliente. Il peso del passato che ritorna è da portare e basta. Non possiamo andare a cercare uno per uno tutti coloro ai quali facemmo torto, infliggendo un dolore che sarà durato anche anni! Spesso non riusciamo a comprendere le ragioni delle nostre bestialità: contraddicono la nostra natura. Di qui, il loro peso sulla coscienza. E’ questa una specie tutta particolare di pesantezza: non un modo d’essere o un tratto del carattere o una deformazione della personalità degli altri intervengono a costituire per noi motivo di afflizione. Il male è in noi. Il 26 maggio 1976 René Char annotò sul suo Diario: Lieve da portare Martin Heidegger è morto questa mattina. Il sole che lo ha fatto tramontare gli ha lasciato i suoi attrezzi, trattenendo soltanto l’opera. Questa soglia è costante. La notte che si è aperta predilige. E’ stato detto autorevolmente che la morte dell’amico non procura dolore, quasi a voler significare che si tratta di un sentimento che va oltre la morte: non perdiamo veramente il nostro amico. E’ la natura disinteressata dell’amicizia che rende ‘facile’ il distacco. Sentiamo pure il cordoglio ma non come quando siamo toccati dalla perdita o dall’abbandono di persona amata. Dunque, anche se nel caso dell’amicizia il lutto è lieve da portare sempre di peso si tratta: un peso che grava sull’anima e che torna a svegliarsi tutte le volte che il pensiero va all’amico perduto. La sfida del senso vissuto è il compito ricorrente che ci vede impegnati addirittura sul ‘quotidiano’, per togliere peso ai frammenti di senso che non riusciamo a tenere insieme, per comporli in un discorso e in un racconto. Insomma, abbiamo a che fare con la pesantezza delle cose, ad ogni piè sospinto. L’elaborazione simbolica dell’esperienza vissuta procede ininterrotta. Non sempre essa avanza sicura: sulla sua strada incontra il passato inemendabile. Con il suo peso dovremo fare i conti fino a quando il tempo non avrà provveduto a ‘fare giustizia’ dei nostri frammenti, magari facendoli inabissare nella dimenticanza.
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PESANTEZZA (4) Aprèslude
23 agosto 2018
Il tempo che resta è forse la stagione più lunga della nostra vita, se siamo fortunati, dopo l’esperienza del lavoro e tutto il resto che se ne va. E’ stato detto autorevolmente che la vita non è breve, ma siamo noi che la rendiamo tale; gli indaffarati si affannano a riempire e ad ‘ammazzare’ il tempo, sono spaventati quando al giorno manca la sua luce. Essi pensano di dover fare ancora: non possono morire, non sono pronti, c’è ancora qualcosa che debbono fare. E’ incredibile il fatto che dicano alla vita che non può abbandonarli ancora. Come se di questo si trattasse! Come se ci fosse concesso, nell’ora che non ha sorelle, il privilegio di giocare l’ultima partita a scacchi, con la speranza di vincerla, cioè di ottenere un rinvio…
Aprèslude
Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio,
non desistere, andartene non puoi
quando è mancata all’ora la sua luce.
Durare, aspettare, ora giú a fondo,
ora sommerso ed ora ammutolito,
strana legge, non sono faville,
non soltanto – guardati attorno:
la natura vuoi fare le sue ciliegie
anche con pochi bocci in aprile
le sue merci di frutta le conserva
tacitamente fino agli anni buoni.
Nessuno sa dove si nutron le gemme,
nessuno sa se mai la corolla fiorisca –
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, invecchiare, aprèslude.
Benn ci invita ad invecchiare, perché è aprèslude, il meriggio della nostra vita. Anche in questo caso, ci ritroviamo a che fare con la pesantezza dei giorni perduti. Possiamo chiamarli mancati giorni; rimpiangere le occasioni perdute; recalcitrare contro il Destino. Aver vissuto tanto può significare sentirsi addosso tutti gli anni trascorsi, come se incombessero su di noi: il cuore è preso dalla pena, quasi dal pianto, e non si sa bene perché. Le scienze dell’anima parlano di malinconia. I poeti parlano di nostalgia. E’ lo sguardo rivolto all’indietro che prevale. Non c’è quasi presente. Il futuro ci spaventa. Ci fa presagire solo l’appuntamento con il nostro Irrappresentabile: la più vuota delle immagini. Dopo aver imparato a morire, il nostro sentimento del tempo cambia. L’esercizio spirituale più lungo è proprio quello che ci insegna ad abbandonare la vita, vivendola intensamente, giorno per giorno. Solo a questa condizione, arriveremo preparati a vivere l’ora che non ha sorelle. L’elaborazione simbolica dell’esperienza vissuta, che dovrebbe impegnarci non solo in seguito a perdite e abbandoni, favorisce il lavoro del togliere peso, sottrarre peso alle cose: la bonifica del territorio della mente e del cuore ci aiuta a congedarci da illusioni ed errori, portandoci a percepire la vita tutta come santa e buona. Una dolce dimenticanza interviene dopo che avremo perdonato noi stessi per tutti gli errori commessi. Ogni giorno sia ‘santificato’, chiedendo perdono tutte le volte che ci accade di fare torti, anche piccoli. Ci inchineremo anche di fronte ai piccoli, ai nostri nipotini, per riuscire a sollevarci fino a loro. Guadagneremo così la possibilità di essere perdonati e avremo ottenuto giustizia, ché non sarà stato trascurato nemmeno il più piccolo grumo di dolore.
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PESANTEZZA (5) Si configura per noi come un peso da ‘gestire’ l’immane produzione di scarti: essa richiede una manutenzione che può diventare maniacale.
25 agosto 2018
Editoriale della rivista di architettura GRAN BAZAAR, n.12 – gennaio 1985: Scarto e manutenzione
Il nostro secolo sembra essere ossessionato dall’idea dello scarto: come qualcosa che viene perduto e che non può essere sostituito, o come il mutamento improvviso, la mossa del cavallo, che muta il corso del tempo e delle cose, producendo quella che i greci chiamavano katastrophé e Nietzsche “il rovesciamento di tutti i valori”. Forse per questo il nostro tempo ha conosciuto un amore sconfinato per il frammento, quasi fosse possibile con questo amore accompagnare le cose alla loro fine, senza che esse debbano ribellarsi e rivolgersi contro di noi. E forse per questo il pensiero ha prodotto una serie di ideologie del progresso e della crescita, che sembrano mettere tra parentesi ogni possibile scarto subitaneo. In realtà, queste due strategie, l’amore per lo scarto-perdita, la difesa contro lo scarto-mutamento, sono entrambe perdenti. Le macerie salgono fino al cielo, e, come ha detto Montale, “l’escatologia / non è una scienza, è un fatto / senza essere sostituite”. E le teorie della scienza biologica ci hanno reso meno sicuri sull’evoluzione naturale. Oltre alla possibilità, ormai calata nel quotidiano di ognuno, del “minuto violento” che può mutare il corso della vita. Anche la manutenzione, di fronte all’immane produzione di scarti, può diventare maniacale. Vera e propria costruzione di una muraglia cinese, che viene rabberciata via via che la costruzione procede. E maniacale può essere anche la scelta dell’effimero: progettare ciò che non può durare, il soggetto e le sue cose “deboli”, e dunque senza alcuna resistenza rispetto al corso del tempo. Il problema è quello centrale del nostro tempo: il rapporto fra ciò che già esiste e il nuovo, che si presenta oggi con un ritmo sconosciuto a qualsiasi altra epoca della storia. Questo “nuovo” necessario è stato letto, positivamente o negativamente, come la condanna a morte dell’esistente, del passato e della memoria. Ciò che viene prende il posto di qualcosa che deve morire per lasciare lo spazio al nuovo. L’arte della manutenzione (e non la sua maniacale coazione) può rovesciare questa convinzione. Nel concetto di manutenzione non c’è solo la nozione di aggiustamento, ma anche quella di tenere attraverso un’operazione della mano: di trattenere trasformando, operando quella che potremmo definire una trasfigurazione. L’operazione di manutenzione dovrebbe essere dunque quella che interviene nel processo di metamorfosi implicito nel corso delle cose, portando ciò che è in ciò che sta per accadere. Non si tratta di un’operazione che si abbandona alla potenza del tempo, di un’operazione “debole”. Si tratta infatti di progettare una trasformazione che deve portare le cose, i luoghi, le immagini, che si estraniano da noi precipitando nella morte o proiettandosi nell’inatteso, presso di noi, ridisegnando i modi di un nuovo possibile “abitare su questa terra”. Aprire un problema non significa chiuderlo o risolverlo, ma indicare una possibilità, l’avvio di una esplorazione. BARBARA NEROZZI
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PESANTEZZA (6) Il peso dell’esistenza
26 agosto 2018
Nella vita di relazione dei singoli, esercita un peso grande il compito dell’accettazione della presenza degli altri, per limiti della persona, soprattutto. Se costituisce un aspetto significativo della realtà umana di chi sappia farsi mente ospitale, si rivela altrettanto significativo l’atteggiamento prevalente di chi non accetti mai consigli di prudenza, l’invito a condividere scelte che vedono anche altri protagonisti: familiari, colleghi di lavoro e colleghi nelle associazioni di ogni genere. Ciò che ci colpisce di più è la chiusura, l’ostinazione, la tendenza ad accentrare su di sé l’attenzione degli altri, l‘angustia della mente. Freud aveva parlato di Versagung, termine che è sempre stato tradotto male, cioè con frustrazione, mentre esso significa Rifiuto (di rinunciare). La misura dell’umanità di una persona – e se sia persona, cioè se il singolo sia riuscito a costituirsi come soggetto morale, se abbia acquistato consapevolezza piena di sé, della propria natura, dei demoni che lo guidano, e se sia capace di fare la scoperta dell’esistenza degli altri – può essere trovata soprattutto nella capacità di accettazione: questa può essere una caratteristica di personalità, cioè rimandare a sicurezza interiore, ad elevata capacità di tolleranza, a stima di sé, al fatto che i sentimenti provati verso se stessi sono relativamente indipendenti da fattori esterni e da altre variabili di personalità. Accettare una persona è segno di umanità, in quanto l’accettazione implica la capacità di distinguere tra fatti e valori, normalità e norma, forza e diritto: l’accettazione richiede la capacità di distinguere tra azioni e atti, tra fatti contingenti e scelte che contraddistinguono la realtà umana di una persona. I sentimenti che proviamo per l’altro non sono palpiti del cuore: essi si fondano su giudizi di valore, presuppongono l’attivazione degli strati profondi della nostra sensibilità, si sostanziano del nostro consentire – dire Sì – alla sensibilità dell’altro, non importa quanto diversa sia dalla nostra: diciamo Sì a un ‘sistema di vita’ che potrebbe non coincidere mai con il nostro; riconosciamo i diritti di una persona indipendentemente dal grado di libertà di cui gode, dalle scelte che compie, dalla trasparenza della sua coscienza, che può essere più o meno grande. Riusciamo ad accettare una persona, se siamo in grado di ‘parlare’ il linguaggio del cambiamento, se cioè riusciamo a mantenere aperta la comunicazione senza chiuderci alla comprensione delle ragioni dell’altro tutte le volte che ci si presentano ragioni sufficienti per chiuderci, per evitare, per respingere, per negare il perdono… Possiamo condannare un comportamento e fare fatica a perdonare, ma resta il compito di continuare ad accettare la persona dell’altro. L’amore rischia di apparirci come una grande sofferenza, se non chiudiamo gli occhi di fronte agli errori dell’altro e continuiamo a consentire alla sua esistenza presso di noi, alla presenza di quella esistenza. Se di vera presenza si tratta, accettarne l’esistenza è continuare a custodirne il significato nel proprio cuore, al di là di ogni commiserazione. Questo è il Bene. Ognuno di noi oscilla tra invidia e gratitudine, tra accettazione e rifiuto. Se l’invidia della vita contraddistingue la povertà, il riconoscimento del bene ricevuto è ricchezza. Da una parte il risentimento, il rancore, il livore, la tetraggine o, più semplicemente, l’angustia della mente, la chiusura al dialogo, la recriminazione, la scontentezza, la svalutazione degli altri. Dall’altra, la riconoscenza, la benevolenza, la venerazione, la gioia, l’apertura alle evidenze sempre nuove che la vita si riserva di farci fare esperienza. Sembra che la scissione paranoide tra un polo e l’altro si strutturi nella primissima infanzia, dentro il rapporto con la madre. Essa si fa madre onnipotente, che è capace di soddisfare tutti i nostri bisogni, per scoprire presto che deve consegnarci al nostro desiderio, riconoscendosi essa stessa nella mancanza: si farà segno d’amore, rinnovando nei modi possibili la sua presenza, ma ci accompagnerà sempre più altrove, in altre case, ad altri compiti, fino a lasciarci andare. Dalla nostra capacità di elaborare la ‘presenza’ dell’altro dipenderà il nostro destino, se sapremo dire ancora Sì alla vita oppure no.
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PESANTEZZA (7) Decisioni e scelte
1° febbraio 2020
In una conferenza sulla libertà di molti anni fa, Massimo Cacciari distingueva la scelta dalla decisione. Se della prima sappiamo a cosa debba essere riferita, della decisione disse che propriamente si trattava di decidersi, staccarsi da. Quando ci separiamo da qualcuno o da qualcosa, perché abbiamo trovato il coraggio di farlo, non si può mai dire che sia di fronte a noi già pronta una via d’uscita chiara, un nuovo territorio in cui consistere, ma soprattutto non è privo di dolore staccarsi da ciò che magari abbiamo lungamente voluto, coltivato, portando dentro il nuovo spazio linguistico comune persone dalle quali allontanarsi è fonte di turbamento: gli altri non accettano di buon grado che un evento traumatico possa essere assunto come causa del distacco. Il gioco delle interpretazioni ci fa scoprire quanto grande fosse la distanza tra le persone, che riferiscono l’accaduto nei modi più strampalati e difformi tra loro. La manutenzione degli affetti si rivela subito inadeguata: avremmo dovuto soffermarci di più a verificare che ogni membro del gruppo riuscisse a tenere il passo e che si sentisse appieno parte del gruppo stesso? Quello che sembrava nebuloso soltanto all’improvviso si rivela vischioso e per niente trasparente: le ragioni personali svelano l’eterogenesi dei fini. Le regole pure assegnate alla vita comunitaria in realtà non erano mai diventate patrimonio personale: invocarle a difesa dei propri comportamenti e delle scelte fatte non produce grandi risultati, perché gli interlocutori si sono sottratti al carattere obbligante delle regole stesse. Se il gruppo sembra non avere più il proprio cemento, allora c’è da dubitare che l’abbia avuto veramente. Ripercorrere la strada fatta, riaffermare il valore delle regole, riassumere e sintetizzare le questioni affrontate è la fatica a cui non riusciamo a sottoporci. L’infranto è lì davanti a noi, fonte di inutile malinconia. Preferiremmo essere già chiamati altrove, non importa se nel mezzo di una radura raggiunta dalla luce meridiana o nel nostro deserto di sempre. Ci sembra che la vita ci prenda in giro, perché proprio quello che volevamo fosse motivo di promozione della libertà altrui si è ritorto contro di noi. Al respiro della vita è subentrato il silenzio della morte della piccola speranza che avevamo coltivato.