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Martedì 22 novembre 2022
AI CONFINI DELLO SGUARDO
Tornare a sentire, sempre.
Se la risposta che costituisce il sentimento può essere espressa fin dalle prime battute, dai primi contatti, nella forma immediata dell’emozione e della passione, del trasporto verso i vezzi e le attrattive dell’altro, prima ancora del dispiegarsi del sentimento corrisposto, si dà percezione delle qualità di valore dell’altro.
Una coscienza trasparente, lontana da ambiguità e malafede, sarà attratta da un’esteriorità che le apparirà non disgiunta dai modi di condursi nel mondo da parte dell’altro. Esprimerà la sua predilezione per la trasparenza di una coscienza, non soggetta ad ambiguità e malafede. Allora, potremo dire che le prime percezioni non ci espongono al rischio di errore, a proposito della natura dell’altro. Se al piacere connesso a tutto ciò che è connesso alle forme aggraziate e ai modi sensuali dell’altro è ben collegato un sentire che conferma il valore personale, diremo che i primi contatti costituiscono una prima garanzia di ‘certezza’ sul valore di un’esistenza.
L’insieme di tutto ciò di cui facciamo esperienza principialmente è solo il primo sentire. Se siamo animati da chiaro sentire, a nostra volta, prima di pronunciare un giudizio di valore e assecondare il trasporto verso l’altro, torneremo a sentire, sempre: ogni volta, cercheremo conferma a quel primo sentire che portava con sé già l’apprensione di qualità di valore, che sono condizione irrinunciabile per non provare delusione di fronte all’oggetto d’amore.
Solo l’esperienza sentimentale ripetuta nel tempo, tuttavia, ci conferisce capacità di giudizio e prudenza nell’assecondare le spinte iniziali verso l’altro. Ciò che si pratica di meno consapevolmente è proprio il giudizio, perché prevale un pregiudizio grande, che non si debba giudicare: il miglior modo per andare incontro a tutte le sconfitte possibili nel campo sentimentale.
Tra le percezioni iniziali e il giudizio, occorre esercitare l’interpretazione dei segni, aprirsi all’ascolto, senza supporre mai nulla che non venga poi verificato dagli atti liberi compiuti dall’altro: è facile facile convincere dagli atteggiamenti seduttivi dell’altro, come se fossero riconoscimento e accettazione della nostra persona!
Tornare a sentire, per verificare che emozione e passione e seduzione e incanto non ci ingannino. Per non dover scoprire dopo mesi ed anni che ci eravamo sbagliati, che non si è dato vero incontro. E’ sempre difficile fermare un treno in corsa. La vita dei sentimenti non può essere ridotta a un treno di cui non si possa regolare la velocità con cui procede. La quotidiana contrattazione dei significati che diamo alle cose è il terreno più solido per verificare le nostre interpretazioni e commisurare ad esse le nostre intenzioni. Se la nostra coscienza è chiara come un forte vento (Sartre), è bene che essa illumini sempre i nostri passi, che la mente sia consorte del cuore, perché la luce della conoscenza non intervenga solo a valle, dopo aver percorso tanta strada, senza aver acquisito chiara coscienza del viandante con cui abbiamo condiviso il cammino.
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LA SAGGEZZA DELL’AMORE
9 ottobre 2019
I sentimenti sono il fondamento della nostra mente
ANTONIO DAMASIO
Di quella specie d’amore che lega un uomo e una donna – o due partner dello stesso sesso -, su cui fantastichiamo per tutta la vita, è stato detto che è amore di elezione, per distinguerlo dalle altre specie di cui è stato detto che è amore naturale. Saremmo portati a pensare che bisognerà rendersi vaso d’elezione, vaso di scelta, per arrivare ad essere capaci di contenere i doni che la sorte vorrà riservarci. In realtà, la scelta a cui si allude con il Vaso è quella che vede noi oggetto di scelta, mentre l’accento andrà posto per noi sulla scelta che facciamo noi; meglio, sul fatto che si tratti di una scelta. Nelle cose d’amore sembra prevalere la ‘vulgata’ del Destino, della Fortuna, del Caso, del mistero, dell’occasione… Insomma, non della scelta. Qualcosa ci precede, ci sorprende nello ‘statu nascenti’, quando le cose non sono ancora, eppure sembra che stiano per essere in modi che non dipendono da noi. Non siamo presi, infatti, dagli strappi, dai colpi di testa, dalle decisioni brusche, da ogni più intempestivo moto dell’anima, a cui concederemo facilmente il nostro consenso, per confermare l’idea che di mistero si tratti e che la sorte abbia scelto per noi? Se ci convinceremo che di questo si tratti, finiremo per uniformare i nostri comportamenti a questa idea dell’amore, dando ragione alla migliore Psicologia che parla di ‘profezie che si autoavverano’: in sostanza, ci apparirà frutto del caso, e dono insperato, quello che apparecchiamo per noi, perché ci piace pensare che le cose d’amore appartengano a quel genere di cose in cui non è in questione se non il cuore, come se il cuore non fosse consorte della ragione, e come se il sentimento non avesse a che fare con i nostri migliori pensieri!
Diremo, allora, per noi, che il sentimento è il fondamento della nostra mente; che il sentimento è attivazione degli strati profondi della sensibilità personale; che, per il fatto che preveda una ‘attivazione’, richiede l’intervento della nostra mente, perché un sentimento nasca e, soprattutto, perché duri. Mente per noi non è ragione, intelletto, pensiero. Non è solo questo. Chiamiamo mente l’azione congiunta, a due vie, del sistema nervoso esteso, della mente e dell’esperienza. Non solo cervello, dunque, ché è un sistema che fa parte di un sistema più grande: una mano che accarezza non è arto meccanico ma sensibilità ‘centrale’ che si avvale della sensibilità periferica per ‘esprimersi’ nei ‘rapporti’ che intratterrà con l’altro da sé: tutti i nostri ‘nervi’ sono ‘parte’ della nostra mente. Come è mente la nostra stessa mente, che non è data una volta per sempre: si tratta di un sistema autopoietico, cioè di una ‘macchina’ complessa che genera se stessa. L’esperienza di cui parliamo, poi, e che sarebbe a sua volta ‘parte’ della nostra mente è l’esperienza interpersonale, cioè quella particolare forma di esperienza che ci piace chiamare ‘scoperta dell’esistenza dell’altro’, che non è poi solo ‘scoperta’, un affacciarsi, uno sporgersi sull’esistenza dell’altro e basta: quest’esperienza è esperienza di relazioni, è la capacità, che tutti possediamo in diversa misura, di stabilire relazioni con l’altro e di stringere legami (legami, non vincoli, non catene). Sarà più chiaro cosa intendiamo dire, se pensiamo – e pensare quello che stiamo per dire è forse l’attività ‘educativa’ più importante per noi – che “cervello e relazioni plasmano la mente” e che “la mente plasma relazioni e cervello”. Siamo alle frontiere della scienza contemporanea. Basti dire che assegnare al sentimento il ‘compito’ di ‘fondare’ la mente è passo che le neuroscienze hanno ormai già compiuto. Si legga, al riguardo, tutta l’opera di Antonio Damasio.
Se mente è, in particolare, relazione; se la mente è relazionale, non vi sembra che a fare il nostro ‘destino’ concorra grandemente quello che la nostra mente saprà fare? Non vi sembra sorprendente ritrovarsi a pensare che le relazioni di cui siamo capaci plasmino la nostra mente e che la mente plasmi le nostre relazioni? Che ne è del sentimento, a questo punto? Mentre lasciamo alle neuroscienze il compito di precisare sempre più la natura della coscienza individuale, ci piace pensare che il peso più grande nella vita della nostra coscienza non sia dato dal “fondo enigmatico e buio” da cui pure siamo quotidianamente impegnati a divinare nelle cose d’amore: il “pensiero del cuore” e i “cuori pensanti” sono espressioni che sono state usate per dire che persone d’eccezione hanno saputo pensare se stesse e realizzare la vita della loro coscienza e intrecciare relazioni sentimentali con la consapevolezza alta che i sentimenti nascono ‘da dentro’, ma quel ‘dentro’ non è un non meglio identificato ‘cuore’: c’è un ordine del cuore da creare: bisogna uscire dal disordine degli affetti, dando significato e valore alle esistenze altre, imparando a regolare il ritmo della propria vita interiore secondo il ritmo dell’esistenza dell’altro. È l’esperienza che noi facciamo dell’altro che ci insegna a vivere.
L’ordine del cuore è il posto che siamo impegnati ad assegnare alle cose, e alle persone, nella nostra vita: non vi sembra, a questo punto, che dire, ad esempio, «Ti penso» e «Tu sei in cima a tutti i miei pensieri» siano modi di dire esemplari che testimoniano un interesse, una cura, una propensione che fanno dire, finalmente, che le cose d’amore acquisteranno significato e valore solo se provvederemo ad assegnare ad esse un ‘ordine’, una ‘scala di priorità’? e non vi sembra, ancora, che la scelta che facciamo di una persona sia atto – non gesto, non azione – fondamentale della nostra ‘mente’, cioè di quella realtà spirituale complessa che noi siamo che si ritrova ad avere un fondamento solo se noi gliene avremo dato uno? E cosa metteremo a fondamento delle nostre relazioni più importanti se non un sentimento, cioè un consentire oppure no a qualità di valore che riconosceremo e che assegneremo a ciò che più conta per noi?
Non si impara a conoscere se non ciò che si ama, e quanto più profonda e completa ha da essere la conoscenza, tanto più forte, energico e vivo deve essere l’amore. – GOETHE
Il senso comune è portato a pensare che “l’amore è cieco”, e con questa espressione allude alle scelte che facciamo nelle cose d’amore, che sono giudicate sempre casuali, precipitose, quando non dissennate… Solitamente, si esprime quel giudizio di fronte alle delusioni personali o alle rotture: queste rappresentano una conferma del ‘principio’. Ma si tratta di un vero principio, di un’idea fondata?
Non è di questa opinione Umberto Curi, che è l’autore di un’opera importante, La cognizione dell’amore. Eros e filosofia [ <- leggere fino in fondo le pagine riportate in Google Libri] che riprenderà altrove, tornando sul tema dell’amore e della conoscenza: sulla scelta estetica, su eros e sessualità, sul mito di Orfeo ed Euridice e su quello di Narciso. Amore non è cieco; anzi, ci insegna a vedere.
Ho sempre indicato ai miei alunni – ma anche ai ragazzi-adulti che ho incontrato – un altro amore. Chiamerò così il diverso sguardo, l’atteggiamento prudente nelle cose d’amore che porta a ponderare le scelte, a basare ogni scelta sulla conoscenza dell’altro. Si potrebbe applicare alla vita di tutte le persone che crescono il principio che alimenta l’esistenza di Prometeo – colui che prima pensa e poi agisce -, da opporre all’esistenza di Epimeteo – colui che prima agisce e poi pensa -.
I ragazzi sono portati a dire subito sì. L’amore è troppo bello alla loro età per aspettare! Ma aspettare, in questo caso, non è attesa d’amore, di un amore che non c’è, l’amore sognato e desiderato… Più semplicemente – ma so quanto pesi per loro questo ‘semplicemente’! -, si tratta di rinviare il più possibile ogni scelta, accontentandosi di stare accanto alla persona alla quale il cuore si apre, per spiare il suo sentire, per misurare il grado della sensibilità, per registrare ogni accordo, tutte le volte che il cuore si incontra con il cuore…
Dopo tutto, c’è da combattere la fretta, il timore di perdere l’occasione che ci viene regalata dalla sorte – lei ha scelto me, proprio me! dovrei farla attendere? a che pro, se il cielo è d’accordo…? -, imparando a riconoscere i segni dell’amore nell’altro: interesse, benevolenza, gentilezza, rispetto, attenzione…
Possiamo anche vivere nell’intervallo che precede una dichiarazione dei sentimenti e l’impegno che ne deriva. Come dice la canzone: meglio respirarla piano la felicità… aspettandoti.
Noi crediamo che la felicità sia ora. Non comprendiamo che è un nunc, un ‘istante eterno’, l’eterna ripetizione dell’incanto dell’amore quello che ci viene incontro con lo sguardo innamorato di una donna che ci dice sì tutte le volte che si ripeterà l’incontro del cuore con il cuore.
Ma l’incontro poi, il vero incontro, è dato dalla tonalità dell’incontro.
La verità è il tono di un incontro. Perché si dia incontro, allora, basterà incontrarsi, ritrovarsi l’uno di fronte all’altra? E basterà che i cuori battano l’uno per l’altro, perché l’amore duri? Non vogliamo l’amore che dura? E cosa occorre perché l’amore duri? Di nuovo, non dipenderà da noi, dalla nostra capacità di durare? dal desiderio? dalla parola? dalla consapevolezza, poi, che amore non è discorso dispiegato, certezza di sé e dell’altro, come se si potesse dare scienza del cuore? ma che, nondimeno, il nostro sentire abbia bisogno di essere sorretto dalla risposta all’ancora che viene a noi come richiesta quotidiana di essere riconosciuti ancora? Il sentimento cos’altro è se non risposta?
Da una parte, serve sapere che il sentimento che proviamo è vero amore, amore per quella persona lì, per quello che è, non per i significati che sovrapponiamo alla sua esistenza!
Dall’altra, serve sapere che il sentimento che proviamo non si lascia dire compiutamente. Il fondo di indicibile che lo caratterizza sarà sempre tale!
Quanto sapere ancora si richiede perché il cuore non smetta di cercare e di trovare le ragioni che lo riporteranno sempre a quella sorgente che non è l’incanto della bellezza dell’altro ma le proprie ragioni, l’indomita capacità di dire sì alle ragioni che porteranno l’altro a trovare a sua volta in sé sempre di nuovo le indispensabili ragioni del cuore che sole fanno durare l’amore!
PIU’ CHE DI AMORE DELLA SAGGEZZA, PARLEREMO DI SAGGEZZA DELL’AMORE
Proviamo a pensare a fondo quello che con Umberto Curi avevo iniziato a pensare più di dieci anni fa, che amore non è cieco, anzi, insegna a vedere.
La cognizione dell’amore. Eros e filosofia (1997) è un’opera di Curi che ‘riassume’ in sé le due scritture precedenti: Metamorfosi del tragico fra classico e moderno (1991) e Endiadi. Figure della duplicità (1995).
La concezione dell’amore come espressione meramente sentimentale, o peggio ancora come manifestazione di una carica istintuale, mera passionalità, comunque contrapposta alle facoltà umane più elevate, prima fra tutte quella della conoscenza razionale, non è affatto un’acquisizione pacificamente condivisa nella storia del pensiero, ma è piuttosto una tesi minoritaria, se non addirittura marginale, che si afferma nell’ambito della filosofia rinascimentale e moderna, assumendo i connotati dell’antagonismo fra la figura dell'”amatore” e quella del “conoscitore”, intento l’uno alla soddisfazione di pulsioni provenienti dalla fisicità del corpo, l’altro al nutrimento e alla coltivazione dello spirito. Viceversa, anche un riferimento sommario ad alcuni fra gli autori più significativi della filosofia occidentale – da Platone a Hegel, da Aristotele a Peirce, dal “Cantico dei cantici” a Schopenauer, attraverso Spinoza, Bruno e Pascal (solo per citarne alcuni) – permette di ritrovare, lungo tutto il corso di una storia che prosegue da due millenni e mezzo, la costante riproposizione delle forme diverse in cui si esprime la “reciproca incrementazione” tra amore e conoscenza. (pp.11-12)
Più che i percorsi che la mente compie nel suo errare erotico, da un’età all’altra della vita, fino al suo compimento nella vecchiaia, a noi interessa lo statuto di verità, l’idea, il concetto, il senso che oggi diamo all’esperienza amorosa. A me interessa sempre, prevalentemente, il senso che l’amore assume per l’esistenza spezzata – essendomi congedato dall’insegnamento, mi sento essenzialmente Educatore – , per il tossicomane giovane e meno giovane, colto alle prese con l’esistenza femminile, spesso essa stessa presa nelle maglie della dipendenza. Dei 35 anni di attività educativa a scuola, la cosa più importante che ricordi è di essermi sempre impegnato a dare ai ragazzi un’Educazione sentimentale, anzi, un’Educazione estetica.
Di educazione sentimentale non è nemmeno il caso di parlare, se con essa intendiamo riferirci ad insegnamenti ‘impartiti’ dalla famiglia e/o dalla scuola. Purtroppo, nemmeno quest’ultima assume fino in fondo una vocazione educativa che la salverebbe dalle critiche severe di cui oggi è oggetto: la salute mentale dei ragazzi non è solo assenza di disagio mentale o di disturbo conclamato; l’equilibrio della persona non è solo una meta dell’età adulta o della maturità raggiunta in giovane età; l’individuazione del singolo e l’identità di genere non sono mete che si raggiungano grazie al mero sviluppo psicofisico. Gli insegnanti sono soli in classe tutti i giorni con i loro ragazzi. Il tempo della lezione è la più grande risorsa che una nazione possieda: l’investimento culturale dell’insegnante deve contemplare, secondo me, elementi di educazione sentimentale – a me piace parlare di Educazione estetica, cioè di educazione della sensibilità. Gli insegnanti non dovrebbero avere paura di affrontare i temi dell’affettività, delle emozioni, della relazione: la Letteratura e l’attualità consentono di toccare lungo il corso degli studi tutte le questioni più delicate, con il sostegno di testi esemplari, di film, di opere musicali, per tematizzare ogni aspetto della vita di relazione. – Viene voglia di dire, parafrasando un vecchio slogan politico: senza educazione, nessun cambiamento, cioè nessuna vera crescita. La mera erudizione lascia scontenti i ragazzi. E a proposito del sentimento più importante – dell’amore -, è indispensabile che i docenti di Italiano aiutino i ragazzi a conoscerne la natura, dal momento che esso è associato a molti altri sentimenti (non di un solo sentimento si tratta, come dicevamo) e non è solo un sentimento (il cuore è consorte della ragione; emozioni e sentimenti non sono separabili dal contenuto di pensiero che li precede e li accompagna; addirittura, parliamo oggi di pensiero del cuore, per significare un modo di intendere addirittura l’intera vita). La saggezza dell’amore, di cui parlo nel titolo di questo articolo è, appunto, la capacità del soggetto amoroso di vedere. Amore non è cieco. Su questo fronte decisivo, non vi sembra che i ragazzi debbano essere adeguatamente orientati, per evitare che impieghino decenni per scoprire che non di un solo sentimento si tratta né di un sentimento solo? Noi dobbiamo insegnare ai ragazzi a vedere le cose d’amore.
Questo compito si rivelava tanto più necessario nel Centro di ascolto in cui lavoravo, in cui sperimentavo il carattere nevralgico delle relazioni sentimentali: i ragazzi si perdono – a volte, arrivano a perdere la vita – per amore, per il fatto che vivono in modo ‘sbagliato’ le cose d’amore. Soprattutto i maschi non sono spesso all’altezza della realtà umana della compagna con cui si ritrovano – che raramente scelgono -, giacché non riescono ad inchinarsi di fronte a quella esistenza, per abbracciarne per intero le ragioni. La rappresentazione inadeguata della donna e la concezione ‘facile’ dell’amore – al quale tutti abbiamo facile accesso – sovraccaricano i ragazzi di tensioni emotive che non sempre riescono a ‘sopportare’. Per quanto mi riguarda, esercizi spirituali e pratica letteraria restano mete ambite, oltre il lavoro della parola proprio del colloquio di motivazione. Assieme all’Educazione sentimentale, infatti, occorre una terapia delle idee, che aiuti – alla maniera del counseling breve – a suggerire una diversa prospettiva, un modo diverso di guardare le cose. Se il tossicomane è portato ad agire e poi a pensare, lo aiuteremo a pensare prima di agire; assieme a lui, discuteremo il significato della sua esperienza e cercheremo il bandolo della matassa della sua esistenza; scenderemo agli Inferi insieme e risaliremo insieme: attraverseremo l’Inferno, lo faremo durare e gli daremo un nome. Analizzeremo insieme i pensieri e le idee che precedono e accompagnano i moti dell’anima. Distingueremo insieme tra emozione, sentimento e passione. Parleremo di carattere e di governo dei sentimenti. Discuteremo la legge dell’amore e percorreremo il lungo cammino del perdono. Impareremo a sperimentare la gratitudine. Coltiveremo l’anima, congedandoci dalla disperazione. Ricostruiremo il paesaggio affettivo, assegnando ad ogni persona il giusto posto, senza dimenticare nessuno. Perché chi non ricorda il bene che ha ricevuto, non spera. Perché non appaia eccessivo quanto vado dicendo, riferirò aspetti della mia esperienza che non lasceranno dubbi su quanto già detto: che l’amore non sia solo un sentimento e nemmeno, poi, un solo sentimento è stata una conquista dei trent’anni, forse dei quaranta, per me. Io sono stato educato all’idea che i sentimenti sono qualcosa di sacro, di intangibile, che viene da sé, come un dono, un’ingiunzione del cielo, a premiare un’esistenza condotta bene, anche se ancora giovane. Dei sentimenti sapevamo che erano e basta: comparivano nel cuore all’improvviso, per non andare più via. Il matrimonio era indissolubile, assieme all’amore, che era eterno. Tutti si sposavano, erano felici e si amavano fino alla morte. Solo qualche attrice (bionda) americana divorziava, ma soprattutto perché corrotta dal denaro: perché in lei non c’era vero amore e perché il matrimonio non era stato celebrato bene, con la convinzione profonda della sua indissolubilità. L’esempio dei genitori, di tutti i genitori, era la conferma di queste idee. Se qualcuno di discostava da esse, era pazzo, avvinazzato, in preda al demonio. Sulla bontà e sull’unicità del sentimento non c’erano dubbi. Io ero convinto del fatto che si poteva anche sbagliare nella ricerca, ma che prima o poi finiva per prevalere l’amore puro e sincero che arrivava per tutti. Un mio compagno di liceo, non particolarmente bello, amava dire: “per ognuno c’è qualcuno”, che voleva dire, più o meno, che ci saremmo sistemati tutti; un amore grande ed eterno sarebbe comunque arrivato.
Molte cose sono successe dopo – e non staremo certo a raccontarle, qui, giacché sono storia recente, della famiglia e della società tutta -: basterà dire che oggi gli stessi ragazzi apprendono con l’esperienza ripetuta delle relazioni sentimentali la difficoltà di costruire relazioni solide e capaci di durare. Ai miei alunni ho riferito sempre le parole di Roland Barthes: “senza cultura non è possibile nemmeno essere innamorati”, che non voleva dire aristocratico disprezzo dei ‘semplici’ e degli incolti; piuttosto, che è facile innamorarsi, più difficile far durare il sentimento, se esso non sia sostenuto da solide ‘ragioni’. Una mia alunna di quinta liceo raccontava tutte le sue esperienze sentimentali, lamentandosi del fatto che la storia più lunga era durata solo quattro mesi. Alla fine dell’anno, dopo cinque anni di letture e di discussioni sull’amore, le dissi: “una storia d’amore che duri quattro mesi è soltanto una storia d’amore che è durata quattro mesi”. Alle sue rimostranze io opponevo la considerazione ragionevole che se non siamo capaci di far durare le nostre relazioni, esse non dureranno. Se non abbiamo filo da tessere, non tesseremo trame capaci di resistere ai colpi della fortuna e agli imprevisti della vita. Oggi possiamo aggiungere: se non porteremo in dote nelle nostre relazioni sentimentali profondità del sentire, se non saremo in grado di attivare gli strati profondi della nostra sensibilità, non riusciremo a dare un nome alle cose, non affronteremo con armi adeguate la questione più grande, quella che contraddistingue l’esperienza amorosa dai tempi di Platone: la dicibilità dell’indicibile. Arriva sempre, cioè, per tutti noi il momento in cui le parole non basteranno più, per dire semplicemente il sentimento, per farci perdonare le nostre mancanze e gli errori, per mostrare all’altro/a ciò che vediamo in lei/lui, per esprimere quello che si agita nel nostro cuore e che rischia di non essere compreso se non sapremo dire che cosa sia. Certo, potremo servirci dei gesti, dei doni, dei simboli dell’amore, ma rischieremo sempre di non saperci distri-care nella foresta dei simboli, se non avremo voce sufficiente da dare ai moti dell’anima.
Sul pensiero del cuore – che è una delle cose che occorre conoscere –, raccomando la lettura dei due testi chiave: James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi e Baldo Lami, Psicopatia e pensiero del cuore. Analisi di un concetto chiave di comprensione del nostro tempo, Zephyro edizioni. E’ il “sublime angelico” di Lami, il pensiero del cuore che guarirà la nostra psicopatia.
Alle pagine 76-77 del suo Psicopatia e pensiero del cuore Baldo Lami si esprime così:
«E’ il cuore l’organo della percezione estetica, l’antica fonte dell’aisthesis (discernimento attraverso i sensi), da cui zampillano l’imaginatio e la reflexio, senza le quali non può esserci veramente vita psichica, perché vorrebbe dire che l’aisthesis si è disseccata ed è diventata an-aisthesis, anestesia, lasciandoci «immagini prive di corpo e corpi privi di immagine», come è infatti nella psicopatia». Per riattivare questa fonte e ricon-nettersi al mondo, Hillman propone un radicale rovesciamento di orientamento, che ci consente di: «[…] dare la precedenza all’anima rispetto alla mente, all’immagine rispetto al sentimento, al singolo rispetto al tutto, all’aisthesis e all’immaginare rispetto al logos e al pensare, all’oggetto rispetto al significato, al notare rispetto al conoscere, alla retorica rispetto alla verità, all’animale rispetto all’umano, all’anima rispetto all’io, al che cosa rispetto al perché (L’anima del mondo e il pensiero del cuore, pp.120-121).
Per Silvia Montefoschi – la seconda fonte di Lami -, invece, non è possibile né auspicabile alcun ritorno a stadi evolutivi precedenti già sperimentati e superati, mentre il rovesciamento di orientamento sta nel rovesciamento della visione, che da frammentaria com’è l’attuale deve farsi nuovamente unitaria, senza per questo tornare a essere univoca com’è stata fino alla crisi del neomitico [del moderno], ma internamente dialettica. […] Anche per Montefoschi, come per Hillman, vale il famoso verso di Hölderlin: «Poeticamente abita l’uomo», ma mentre per Hillman l’abitare poetico dell’uomo sta nei volti divini delle forme sensibili del mondo che risvegliano alla sensibilità estetica, per Montefoschi l’abitare poetico dell’uomo risiede nel manifestarsi della divina coniunctio (congiunzione e coincidenza degli opposti) come unica realtà vivente. La psicopatia in questo caso è il rigetto della coniunctio, che è proprio il pensiero del cuore che scaturisce dai due quando si riconoscono nell’uno, e che è il Vivente (pag.77 di Psicopatia e pensiero del cuore).
E’ da qui, dall’idea di questa coniunctio, che siamo partiti 20 anni fa per l’avventura dell’ascolto nel Centro di ascolto che viveva nella mia città. Lo ‘spettacolo’ dell’infranto, che si staglia davanti a noi, è il punto da cui ogni volta di nuovo ripartiamo, per verificare insieme quanta strada si possa fare insieme, perché solo nella dimensione dell’intersoggettività si dà senso e la possibilità di ‘salvarsi’ insieme.