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OGNI VOLTA DI NUOVO, LA FINE DEL MONDO. Con queste parole il filosofo Jacques Derrida ci parla della morte degli amici, ai quali dedica le sue orazioni funebri, raccolte poi in un libro che riporta quel titolo.
Non dimenticherò mai l’esperienza del lutto che dovette fare prematuramente un’alunna di Liceo con la morte del padre. All’obitorio chiesi alla madre come avesse preso la notizia la sorellina di dieci anni. La madre mi riferì: È arrabbiata con il padre. Dice che non doveva morire: “Io sono piccola ancora. Non dovevi morire!” Non era pronta. Non siamo mai pronti.
Quel che viene dopo è lutto e nostalgia. Come dice Recalcati, il lavoro del lutto mira a bonificare il campo, ad elaborare tutta l’esperienza della perdita. Quel che resta è oggetto della nostalgia, nella forma del rimpianto o della gratitudine. L’elaborazione personale può prendere diverse strade, tutte dipendenti dalla nostra capacità di elaborazione simbolica: si tratta di riscrivere la storia del mondo, decidendo di volta in volta chi puo tornare a farne parte e chi no, se ci sia posto per nuove figure nel proprio paesaggio affettivo oppure no.
Nella sua recensione del 15 novembre su Repubblica dell’opera di Massimo Recalcati, La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia, Rosella Postorino allude al cortometraggio “Un jour“, per dire la mancanza:
“… Così, quando un legame finisce, la nostra libido viene sequestrata dall’oggetto perduto, nel quale avevamo investito energie, aspettative, progetti, e che invece ha potuto abbandonarci. Sparendo, ha scavato un buco nel mondo, e in noi, come in quel cortometraggio di Marie Paccou, Un jour, che vidi nel 2001 e mai ho dimenticato. Un uomo entra – letteralmente – nel ventre di una donna, che lo trasporta conficcato in sé, una spada che la trafigge da parte a parte; quando lui va via, a lei resta quel buco al centro del corpo. Altri lo occuperanno, ma saranno sempre di una misura sbagliata, cioè lei sarà per sempre anche il resto di quella perdita, con la quale chiunque la avvicini entrerà in contatto”.
C’è sempre da chiedersi se l’amore poi avrà il potere di ‘colmare’ il vuoto lasciato da una perdita, se possa arrivare ad eguagliare il senso e il valore del bene perduto. Freud ha scritto che anche il lutto più grande si estingue. Si tratta di vedere cosa siamo capaci poi di fare di noi, ripartendo da quello che abbiamo lasciato che si facesse di noi. Scienza delle tracce, la psicoanalisi non ha dubbi sul fatto che il paesaggio della nostra anima non potrà mai tornare ad essere quello che era prima.
Dell’esperienza della perdita diremo che non riguarda solo il lutto, conseguente al congedo dalla vita di persona a noi cara. Anche l’abbandono assume la tonalità emotiva del lutto. Anche il venir meno della forza persuasiva di un ideale, che non trova piu riscontri significativi nella vita sociale, si tradurrà nel sentimento doloroso di un bene perduto. E che dire dei nostri amori! Delle amicizie sconfitte! Dell’altero disdegno di chi ci fa sentire inutili, non amati, non degni di essere amati, di poco peso e valore!
Dedicheremo l’intera vita a curare le ferite prodotte da tutte le perdite, consapevoli del compito che ci attende: affacciarci ancora alla vita, con la gratitudine che si richiede per il bene ricevuto. È nostro compito uscire dall’insensatezza e dal vuoto in cui ci accade di precipitare, per tornare a dare senso alle cose, alle persone, che sono l’unica via per tornare a sperare.