La fenomenologia come pratica spirituale (366): Il nostro Reale


La fenomenologia come pratica spirituale (366): Il nostro Reale
Sabato 18 gennaio 2025
Che la realtà sia costruzione sociale è cosa che i politici sanno bene e che si guardano bene dal proporre come oggetto di conoscenza, per favorire partecipazione, inclusione, benessere sociale. Il loro potere si basa sull’uso di conoscenze che trattano come se fossero loro appannaggio segreto.
Nelle regioni abitate da noi, facciamo i conti con la capacità che hanno gli altri di farci sentire ‘dentro’ i processi in atto oppure no. A tutti i livelli di realtà, rischiamo di stare ‘fuori’, se non coltiviamo lungamente il senso della nostra presenza, perché diventi realtà inoppugnabile, consistenza oggettiva incontrovertibile.
Scrivere serve anche a dire di sé tanto da rendere vano ogni tentativo di trattarci riduttivamente alla misura personale da parte degli altri. L’eccedenza di senso non è superfetazione di un ego centrato su di sé: il baricentro della nostra esistenza è sempre stato altrove, sicuramente fuori di noi.
Nel tempo che resta, non ci sentiamo come l’inattuale niciano ma come l’oltreuomo musiliano, per le troppe ragioni che abbiamo accumulato nel tempo. Non abbiamo nulla da chiedere che non abbiamo ottenuto già. Possiamo confessare di aver vissuto. Non basterà la piccola scena dalla quale possiamo anche sentirci esclusi oggi a farci sentire meno di quello che siamo. Siamo pronti.
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15 aprile 2018
L’INEMENDABILITA’ DEL REALE
Parafrasando Borges – “L’evento più importante della mia vita è stato la biblioteca di mio padre” -, direi oggi che la Scuola è stata l’evento più importante della mia vita, in quanto Istituzione che ha legittimato il mio agire sociale, conferendo realtà alla mia plausibilità soggettiva.
Tutte le altre esperienze personali – Chiesa, Partito, Sindacato, Lavoro educativo – si sono rivelate “prive di fondamento”, cioè tali che in esse non ho trovato legittimazione e protezione fino in fondo: solo obbedienza e cieca appartenenza hanno sostenuto i giochi linguistici (le regole condivise) nella loro provvisorietà; cooptazione dall’alto e delega breve prevalsero su ogni altro criterio formale nelle relazioni sociali che fu concesso vivere in quelle ‘realtà’ sociali. I ‘padroni’ erano altri e altrove: l’esercizio del potere, negli ambiti locali, fu illusoria sensazione di realtà. I rapporti di forza e le ‘alleanze’ tra soggetti portatori di interessi materiali soggettivi e privati resero la partecipazione esperienza di pochi anni.
Tutto è cambiato in peggio nel ‘sociale’: la crisi crescente del welfare, con la fine delle forme di finanziamento pubblico a sostegno del volontariato impegnato nel lavoro di aiuto per il disagio grave, ha lasciato soli i soggetti dislocati negli avamposti sociali.
Quello che viene dall’usura del tempo – il cosiddetto barnout -, che è quasi del tutto assente nel ‘privato’, si è ripresentato in altre forme: come solitudine degli operatori, spesso non sostenuti né protetti da nessuna ‘autorità’ superiore.
La lunga carriera scolastica, invece, si è consumata tutta all’ombra di un potere che riconosceva e proteggeva il lavoro educativo. Il significato in me di quella esperienza non è mai cambiato. Il ricordo nel tempo ha confermato il valore assoluto di un’esperienza lavorativa che conteneva in ogni suo momento i modi e le forme della ‘remunerazione’ e del riconoscimento: per quest’ultimo, non si richiedeva alcuno sforzo per riceverlo: era nelle cose e valeva per tutti, a parte qualche vantaggio morale derivante dal maggiore impegno e dall’investimento di risorse personali.
La ‘delusione’ provata di fronte alla scoperta dell’assenza di amicizia, pur in mezzo al numero grande di insegnanti della mia scuola, fu ridimensionata e corretta dall’idea del valore riconosciuto, del prestigio personale persistente nel tempo, del senso di dignità provato ogni giorno, del benessere indiscusso provato ogni volta ‘salendo’ sulla cattedra: ci sono, comunque, sentimenti e valori morali che si affermano nelle relazioni sociali, in assenza dell’amicizia. Forse, il bisogno di amicizia in me ha creato un “effetto alone” sull’esperienza di insegnante, che si è diradato con il tempo: ho capito che “quel che resta del giorno” non è poco, perché quelle relazioni erano segnate da una considerazione personale a volte alta quanto quella che viene dall’amicizia, spesso anche superiore a questa.
Il giudizio disincantato sulle esperienze sociali private deriva dalla loro provvisorietà e precarietà: non hanno retto alla prova del tempo; alcune di esse si sono rivelate del tutto negative, in quanto fonte di delegittimazione sociale e di dolore, per la svalutazione personale e il silenzio che accompagnò ogni ‘abbandono’.
Il lavoro sociale ‘prestato’ lungamente resta patrimonio privato, tesoro che affiora tutte le volte che incontro qualcuna delle persone con cui sono riuscito ad intrattenere rapporti fecondi, che si sono rivelati positivi per lo scambio di risorse che li contraddistinse.
Ancora oggi, tuttavia, mi sento chiamare ‘professore’, e di questo sono felice: essere stato insegnante è la cosa più importante della mia vita, perché la Scuola ha contribuito grandemente a definire la mia identità, almeno quella parte di me che viene chiamata Sé, la parte oggettiva, perché ‘depositata’ nelle relazioni formali.
Nei momenti nevralgici della mia vita, che sono stati segnati dall’acquisizione della consapevolezza dell’esaurimento e del fallimento di una di quelle esperienze grandi ricordate, ha costituito sempre motivo di salvezza il pensiero di essere (stato) un insegnante. Questo patrimonio vivrà sempre in me, al riparo degli assalti dell’immortale volgarità umana.
Posto che la conoscenza è patrimonio comune degli individui nella realtà quotidiana, ciò che percepiamo come “reale” varia da società a società ed è prodotto, trasmesso e conservato tramite processi sociali, a partire dal rapporto dialettico fra attività umana e istituzioni: mentre l’attività umana, che diventa tale solamente in un contesto di relazioni sociali, tende ad oggettivarsi e quindi a cristallizzarsi in forme definite, le istituzioni influiscono in modo pervasivo e complesso sul processo di socializzazione di ogni persona.
I grandi soggetti privati che hanno costituito tutta la mia esperienza sociale al di fuori della scuola hanno fatto realtà per me in modi e in forme che non mi hanno garantito un fondamento di realtà a cui fare riferimento per sempre: i giochi linguistici (le regole condivise poste alla base delle relazioni di cui mi è stato possibile fare esperienza) non prevedevano per me una “nomina a tempo indeterminato” e regole ‘democratiche’, cioè valide per tutti: è arrivato il tempo in cui il contratto non valeva più: è stato così tutte le volte che ho rivendicato il diritto alla pari dignità o quando ho preso iniziative che mettevano in discussione assetti di potere non democratici, cioè privi di fondamento, per me: non c’era più realtà da condividere. Chi ‘costruiva realtà’ lo faceva senza di me! Non prevedeva me.
A proposito di realtà e di reale, Massimo Recalcati si esprime così:
“La realtà è la realtà effettuale sulla cui esistenza nessuno – nemmeno l’ermeneuta nichilista più efferato – come ci ricorda nella sua ultima e notevole opera Gianni Vattimo – può dubitare. La realtà di una ciabatta nella stanza o della pioggia sono fatti in sé, esterni, non sono né nella mia coscienza, né nel mio inconscio. La realtà ha le caratteristiche della permanenza indipendente dalla mia volontà. Questa realtà coinvolge evidentemente anche la mia persona. Guardandomi allo specchio non mi stupisco di essere io e che questo io che sono non coincida affatto con l’immagine riflessa, sebbene io mi riconosca in quella immagine. Allo stesso modo se guardo una ciabatta abbandonata in una stanza non dubito che sia una ciabatta e che, come tale, sia destinata a certi usi e non ad altri. Ma la realtà, proprio per questi attributi di permanenza e di indipendenza dalla mia volontà – insinuerebbe Lacan -, è un sonno. Nel senso che nella nostra frequentazione abitudinaria della realtà – la mia immagine allo specchio, la ciabatta nella stanza – tendiamo ad addormentarci, cioè presupponiamo che la realtà risponda ad un certo ordine naturalmente evidente. Io sono io, la ciabatta è la ciabatta. Se cammino per strada, non mi interrogo sul fatto che gli edifici che ho attorno possano crollare o non esistere. Attribuisco loro una certa fiducia, come quella che Hume attribuiva alla probabilità che il sole risorgerà anche domani. In questo senso la nostra vita è fatta dalla routine della realtà.
E il reale? Quando incontriamo il reale? Per Freud negli incubi. Ovvero in qualcosa che si sveglia e ci impedisce di continuare a dormire (aggiunge: perché siamo arrivati troppo vicini alla verità del nostro essere più pulsionale). L’incontro con il reale è sempre l’incontro con un limite che ci scuote, con qualcosa che ci impedisce di continuare a dormire. L’apparizione di un nodulo che minaccia una malattia mortale, la perdita di un lavoro che mette a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia, l’insistenza sorda di un comportamento sintomatico che mi danneggia e che nessuna interpretazione riescea far regredire; ma anche un nuovo amore, la nascita di un figlio, un’esperienza mistica, l’incontro con un’opera d’arte, un’invenzione scientifica, una conquista collettiva. Tutto ciò che risveglia dal sonno della realtà è reale, compreso l’incubo di cui parla Freud. Si tratta di una forma radicale dell’inemendabile. Non posso sottrarmi alla morte, ma nemmeno agli effetti che su di me provoca la lettura perturbante di un libro o la visione di un film o di un quadro. Il reale è ciò da cui non si può fuggire. In questo senso per Lacan il reale è associato ad un trauma che introduce nella nostra vita una discontinuità che spezza il sonno routinario della normalità della realtà. Sono davvero quell’io che vedo riflesso allo specchio (bisognerebbe, per esempio, chiedercelo quando siamo attraversati dall’angoscia)? La ciabatta è davvero solo una ciabatta? (bisognerebbe chiederlo ad un feticista del piede…)?
Il reale, se dovessimo dare una definizione secca, non coincide mai con la realtà ma è ciò che la scompagina. Umberto Eco definiva “realismo negativo” quel realismo che introduce la realtà a partire dalla sua resistenza irriducibile all’interpretazione. E’, per certi versi, la stessa definizione che ne dava Lacan: il reale è ciò che resiste al potere dell’interpretazione. Con una aggiunta decisiva e una distinzione: il reale non coincide con la realtà, poiché la realtà tende ad essere il velo che ricopre l’asperità scabrosa – “inemendabile” – del reale. Non perché il reale sia un in-sé noumenico che la realtà apparente avvolgerebbe – il che finirebbe fatalmente per riprodurre un vecchio schema metafisico – ma perché la realtà si costituisce socialmente a partire dalla necessità di neutralizzare proprio l’asperità scabrosa del reale. La psicoanalisi segnala la tendenza degli esseri umani a cercare rifugio nel sonno della realtà per neutralizzare il trauma del reale. La realtà è l’analgesico del reale. E’ uno schermo che serve a proteggere la vita: io sono io, la ciabatta è la ciabatta. Dopo l’11 settembre qualcuno aveva scritto: “adesso che siamo stati costretti a risvegliarci, tornate a farci dormire il prima possibile”. Ridateci, insomma, il sonno della realtà. (“Quando la ‘realtà’ anestetizza il ‘reale'”, la Repubblica, 24 aprile 2012: bit.ly/2Hn2whr)
Abbiamo affermato che erano “senza fondamento” le esperienze sociali vissute all’esterno della Scuola, perché con esse non valeva il principio della priorità della società sulla politica: le ragioni del Potere e dei Poteri prevalsero sempre. Furono sempre poteri determinati a prevalere sulle buone ragioni di chi era, come noi, espressione della società e basta. In alcuni casi, il potere che fece prevalere le proprie ragioni era un potere non dichiaratamente politico, bensì espressione della società stessa, ma pur sempre un potere che non assegnava alla propria azione una finalità ad includendum.
Sarebbe stata questa scelta un dare saldo fondamento alla preoccupazione di fare di un mondo a noi sostanzialmente estraneo una realtà durevolmente condivisa.
Per poter dire di essere parte di una realtà condivisa, si sarebbe richiesto il gesto ricorrente di chi fa posto anche per noi, per farci sentire come chi sa di occupare un posto, non importa quanto importante, nella realtà.

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