la Repubblica, 2 dicembre 2008
ADRIANO SOFRI, Crocifisso. Quel simbolo religioso che spacca la politica.
[Nonostante tanti usi perversi, o fatui o distratti, è ancora capace di scandalo Lo scandalo della croce sta nel rovesciamento dall´ignominia alla nobiltà, alla regalità, al trionfo.]
[È polemica dopo la decisione di un tribunale spagnolo di rimuoverlo dalle scuole. In Italia la Chiesa ha denunciato l´oltraggio. Ecco la storia e il valore di un´immagine universale.]
Pochi giorni fa con tante persone diverse ho ricordato un amico caro che è morto prima del tempo. Il nostro amico abitava a Montalcino, a pochi chilometri dall´abbazia di Sant´Antimo. Non era credente, ma amava l´abbazia e i suoi canonici bianchi, e gli piaceva portare i suoi ospiti a visitarla. Molti di noi che lo salutavamo per l´ultima volta, eravamo stati guidati da lui in quel posto bellissimo. Dentro, fa un gran freddo, quando fa freddo, ma la luce lo compensa. Era un giorno di cielo azzurro e di nuvole candide, così il sole irrompeva e spariva dalle finestre sotto il soffitto della fiancata, e la bifora dell´abside inquadrava una corsa di nuvole. Al centro del gioco di luce, sospeso sopra l´altare è un grandioso crocifisso ligneo policromo del Duecento, le cui braccia si spalancano a occupare lo spazio spoglio. Il priore parlava con simpatia e rispetto del nostro amico, e spiegava che senza la fede nella resurrezione quel nostro trovarci là non avrebbe avuto senso. Io, e altri come me, non pensavamo così. Quel bel crocifisso, la cui positura mostra probabilmente l´intenzione di raffigurare già, oltre il tormento e l´agonia, un movimento verso l´alto – una resurrezione – a molti di noi sembrava abbracciare fraternamente la sofferenza attraverso cui era passato il nostro amico e il nostro lutto per lui. Anche senza la fede nella resurrezione, aveva senso stare lì e condividere un commiato con altre persone, con quell´immagine di rinnegato, venduto e suppliziato, e con la solennità del luogo.
Fuori dall´abbazia, di fronte alla facciata, si alza un colle sulla cui cima è stata piantata poco fa una croce alta 22 metri, dedicata al leggendario fondatore dell´abbazia, Carlo Magno. Quando mi aveva guidato fin là, il mio amico me l´aveva mostrata con una perplessità, come un impianto invadente ed estraneo al profilo del poggio e della valle, una specie di proclama proprietario. L´ho riguardata con la stessa sensazione, ora più netta, per il contrasto col crocifisso dell´altare. So che è una tradizione antica, quella di segnare le cime con la croce, e magari di adibirla a parafulmine. Tuttavia qui, con la croce incombente sopra l´antichità di pietre e di piante, ho avuto ancora una volta l´impressione dei tanti significati diversi che può prendere il crocifisso.
A ciascuno la sua croce. Si dice così, e vuol dire che è difficile a una vita umana sfuggire all´agguato della disgrazia. Prendiamola invece alla lettera, quell´espressione, come se volesse dire che la croce ha altrettanti significati quanti sono quelli che la portano. La croce tanto più brillante sulla scollatura tanto più generosa di una signora, per esempio: è difficile che rinvii a pensieri pii, e tantomeno allo “scandalo della croce”, quello che ha reso sublime uno strumento di ignominia. Piegata all´odio e alla ferocia razzista, la croce incendiata del Ku Klux Klan è il più osceno dei simboli. È ambigua e turbante la croce che si associa a un potere pubblico, fra la rivalsa della potenza e la reminiscenza di una iniqua condanna.
In un´aula di tribunale, né la legge, né il crocifisso riescono davvero a essere uguali per tutti. Si dice, lo disse anche una famosa sentenza del Consiglio di Stato, che, esposto fuori da un contesto religioso, nelle aule scolastiche per esempio, il crocifisso conservi «un valore altamente educativo» anche «a prescindere dalla religione professata». Che sia un simbolo “universale”. Può esserlo alla condizione elementare che l´universalità sia riconosciuta da tutti coloro cui si rivolge, e cessi di esser pretesa tale quando il riconoscimento manchi, e intervenga un´obiezione. Tolti i muri pubblici, resterà sempre uno spazio ampio abbastanza in quelli di culto, fra le pareti private e nei cuori delle persone.
Natalia Ginzburg scrisse un articolo memorabile per l´Unità, nel 1988. Si intitolò “Non togliete quel crocifisso: è il segno del dolore umano”. Chissà se lo riscriverebbe così. Oggi ci sono tanti nuovi cittadini che dal crocifisso appeso in un´aula di scuola possono sentirsi offesi o esclusi. È un povero modo di intendere la fede quello che la lega all´ostensione nei luoghi pubblici dello Stato, e nella rinuncia a quel compromesso col potere temporale vede, addirittura, l´avvento di una “Cristofobia”. Un passaggio dell´articolo diceva: «Non può essere obbligatorio appenderlo. Però secondo me non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo». Rimuovere un simbolo non è la stessa cosa che insediarne uno nuovo. Vale per i muri, vale per il linguaggio quotidiano. Non si smetterà da un giorno all´altro di dire, come in certi nostri dialetti “nu cristiano”, e intendere un essere umano, o dire, in lingua, “un povero cristo”. E gli altri, i nuovi arrivati, cercheranno anche loro di andare oltre la lettera. Si tratterà di rispetto e buon senso.
Tuttavia, nonostante tanti usi perversi o fatui o distratti, il crocifisso è ancora capace di scandalo. Non parlo dello scandalo suscitato nei contemporanei di Gesù da un supplizio infamante, ed ereditato da chi, come Nietzsche, rimpiangeva gli dèi pagani spodestati da una religione malata e servile e spregiatrice della vita. Benché Gesù gli apparisse innocente dell´impostura della Chiesa, “l´unico cristiano”, e benché nei “biglietti della follia” si firmasse coi nomi di Dioniso e di Anticristo, ma anche di Crocifisso. Il suo Gesù è comunque il disarmato asceta della beatitudine, non il rivoluzionario delle Beatitudini. Lo scandalo inesausto della croce sta qui, nel rovesciamento senza precedenti e senza eguali di un simbolo di ignominia in uno di nobiltà e addirittura, per i credenti nella resurrezione, di regalità e di trionfo. Non era mai avvenuto né sarebbe avvenuto mai più, non a tal punto. (Ma che impressione devono aver fatto i superstiti dei campi di sterminio la prima volta che decisero di sfilare con le uniformi e la stella). Quella cristiana è una vera rivoluzione: la rivoluzione dell´ebreo Gesù, l´inveratore della profezia di Isaia. L´inversione che rende possibile – sia pure nell´arco di tre secoli – il passaggio dalla crocifissione come patibolo d´infamia al simbolo di gloria e di venerazione, è annunciata nel Vangelo del Discorso della montagna, e nella sua formidabile alternanza di beatitudini e minacce. Beati i poveri e guai a voi, i ricchi. Beati quelli che hanno fame, e guai a voi, che ora siete sazi. Beati quelli che ora piangono, e guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. La rivoluzione, alla lettera: quello che sta sotto andrà sopra, quello che sta in alto precipiterà nel fondo. Molti degli ultimi saranno i primi.
Il rovesciamento impronta l´intera lezione. I ricchi e i poveri. I nemici da amare, da benedire quelli che maledicono. Sarà così che un condannato a morte, reietto, senza difesa, deriso e canzonato – lo incoroneranno di spine, giocheranno con lui allo schiaffo del soldato – giustiziato sulla croce con due delinquenti comuni, siederà alla destra del Padre e verrà a giudicare i vivi e i morti. Basterebbe recitarle oggi all´uscita di un supermercato, le inversioni delle beatitudini, per sentirne lo scandalo. Oggi, quando i ricchi sono più ricchi ancora, disgraziati. A maggior ragione lo scandalo della croce brucia ancora in ogni luogo conculcato della terra. Là il crocifisso non è un simbolo di rassegnazione e di negazione di sé, e tanto meno di potenza e di vanagloria, ma di resistenza e libertà e anelito di giustizia, spesso a costo del martirio.
François Xavier Nguyen Van Thuan è stato un principe della Chiesa, il primo cardinale vietnamita. È morto nel 2002 a Roma, dove viveva dal 1994, presidente del Pontificio Consiglio Iustitia et Pax. Prima era stato arcivescovo e prigioniero, nelle galere del Vietnam a noi così caro, del Vietnam “liberato”, per 13 anni, e tenuto per nove in isolamento. Nel “campo di rieducazione” di montagna di Vinh Quang si era intagliato una piccola croce di legno. In un’altra prigione era riuscito a procurarsi un po´ di filo elettrico, e ne aveva fatto una catenella per portare la croce al collo. Si capisce che quando, liberato e riparato a Roma, si vide offrire una croce d´oro, ringraziasse e si tenesse la sua.