Le parti del discorso sono nove. I modi del verbo sono sette. I tempi del verbo sono otto. Selezione e combinazione – lungo l’asse sintagmatico e lungo l’asse paradigmatico – secondo Jakobson sono le procedure della mente che presiedono all’attività linguistica. Giacomo Leopardi ha dichiarato nel suo Zibaldone che la sintassi è una condizione dello spirito. Noi ci faremo condizionare dai principi linguistici, giurando fedeltà alla parola.
Certi di queste certezze, moveremo verso il nuovo anno contenti di questo, che ci sorreggerà il congiuntivo nel movimento dei nostri pensieri. Siamo certi che non vacilleremo, in quanto il piede riposerà su un terreno sicuro, soprattutto quando si tratterà di dire l’indicibile.
Siamo stati educati all’idea che l’indicativo è il modo della certezza, della realtà; mentre il congiuntivo è il modo della possibilità, dell’impossibilità, dell’irrealtà. Usiamo l’indicativo per esprimere la realtà dei fatti, per definire il significato dei termini e delle cose. Ricorriamo al congiuntivo per i sentimenti, le emozioni, le supposizioni.
Lasceremo ai soggetti dotati di spirito indipendente il compito di indicarci la realtà sociale. Noi ci concentreremo su ciò che gli uomini vorrebbero essere, su ciò che non sono ancora. Siamo certi che le cose che non cambiano sono più importanti di quello che vorremmo che fossero. Tuttavia, la mente e il cuore non si danno regole certe e definitive. Per questo, vacillano. Non iscriveremo il nostro programma di vita al principio di Prometeo. Tutte le scienze guidano già la nostra vita.
Sotto il segno di Epimeteo, avanzeremo nella foresta dei simboli della cultura contemporanea con l’ascia affilata della ragione, senza guardare né a destra né a sinistra, come diceva Walter Benjamin.
Contro la malinconia e l’effimero, ci concentreremo sull’istante eterno, sul tempo-ora che occorrerà dilatare fino a farne occasione di rivolta e di cambiamento. Non ci rassegneremo alle sirene dell’opinione né alla clava della forza.
Dal momento che nulla appare invano, (in)seguiremo la superficie delle cose per cogliere finalmente ciò che giace al fondo, la realtà dell’anima in mezzo all’impermanenza e all’effimero. Cercheremo l’essere che non si risolve nello svanire. Ad esso presteremo fede. Continueremo a distinguere i sentimenti psicologici dai sentimenti morali. In cima a tutto collocheremo ancora l’Amicizia. Sempre di nuovo, affermeremo il valore di un’etica del desiderio indistruttibile, perché convinti che la nostra condizione mortale sia tutta lì, oltre finitudine e colpa.
L’innocenza seconda a cui abbiamo creduto lungamente, e che si consegue rinnovando le promesse e dichiarando i nuovi impegni, resterà uno scopo e un metodo possibile. Non rinunceremo alla speranza, senza la quale la timida ala dei sogni cesserebbe di battere.
Torneremo a credere nella perfettibilità del genere umano, senza far coincidere sviluppo e progresso. All’idea che quest’ultimo sia ineluttabile e ‘necessario’, per stare meglio, opporremo la scommessa della decrescita. Ci accontenteremo del pane di ieri.
Chiederemo alla poesia di scaldarci il cuore, e la cercheremo nella gentilezza e nella tenerezza, nell’arrendevolezza della fantasia e nella compassione per i vinti.
Taceremo di fronte ai fratelli che non rispondono al telefono, quando li cerchiamo. Ripeteremo la nostra umile preghiera, perché abbiamo bisogno della solidale catena che salva. Non lasceremo al nostro orgoglio la forza delle sue astratte ragioni, perché ci è stato insegnato da chi da sempre è oppresso dalla guerra che il compromesso soltanto conduce alla pace. E la pace è meglio della morte.
Cercheremo la salvezza per chi rischia di essere sommerso, per salvarci dal gelo del diniego e per non cadere nell’oblio.
Si tratterà di dare forma a ciò che non ne ha: alla materia dei sogni e ai vissuti personali. Ci occuperemo di ricordi e di ombre. Cercheremo di dare ad ogni oggetto la sua ombra. Accanto alla luce delle cose belle metteremo tenebre ed errore. Inseguiremo tutte le nostre illusioni, per accarezzarle senza farcene irretire. Le chiameremo chimere.
Ci atterremo ai dati degli istituti di statistica, senza farci prendere dallo sconforto. Ma continueremo a stare accanto ai poveri e a preferire la compagnia degli onesti e dei giusti. Questi ultimi soltanto chiameremo saggi. E ameremo solo loro.
Abbandoneremo l’idea che si debba amare chi non ci ama, se in mezzo alla folla la faccia indistinta del passante non si farà volto e storia e non assumerà i tratti umani del viandante consapevole della sua ombra.
Dichiariamo subito che la preferenza sarà per due sole cose, il futuro anteriore e l’idea del futuro nel congiuntivo. Quest’ultima compariva nella mia Sintassi latina in fondo al volume, che conteneva il caso, il verbo e il periodo, negli anni del Ginnasio. Avendo sfogliato per tempo tutto il volume, per farmi un’idea di ciò che mi aspettava, pensavo sempre con timore a quella ‘meta’. Ancora oggi provo una certa ansia, al pensiero che si possa esprimere un’idea del futuro servendosi del congiuntivo, che pure non ha tempi per il futuro. Nelle tabelle che riportano modi e tempi del verbo, la casella del congiuntivo che corrisponde al futuro semplice e al futuro anteriore del modo indicativo è vuota. Non ci sono mai stati dubbi al riguardo. Eppure, un’idea del futuro viene espressa dal congiuntivo. Fin dal congiuntivo esortativo, quello che suggeriamo all’altro vale per il presente-futuro. Più importante per noi sarà quell’idea di un’anteriorità conficcata nella dimensione temporale del futuro che è promessa e speranza, anticipazione e presupposto e che aspira talvolta a farsi giuramento solenne.
Negli anni di Opera aperta (1962), Eco ricorreva alle parole di Klee e Focillon, per dare voce al suo programma: «Se Ingres ha posto ordine alla quiete, io vorrei porre ordine al movimento» (Klee); «Le relazioni formali in un’opera e tra le varie opere costituiscono un ordine, una metafora dell’universo» (Focillon).
Nelle regioni inferiori dell’essere da cui parliamo, si stende davanti a noi una provincia inesplorata di cui vorremmo disegnare la mappa: sono i sogni dei bambini, che non conoscono ancora l’errore e il male, che non possono fare a meno di sognare, per non soccombere e per continuare a crescere in mezzo al vento e alla sterpaglia che avanzano.
Il congiuntivo ci servirà, per dare forma a quei sogni e per non disperare della possibilità che è concessa ancora a noi, che pure abbiamo il diritto di sognare.