Quello di sabato 20 dicembre, al gruppo degli alcolisti dell’Ospedale di Pontecorvo, è stato l’ultimo incontro dell’anno. Ci rivedremo il 10 gennaio.
Come ogni anno, Maria ha letto un suo scritto di saluto e di augurio. Pieno di congiuntivi. La frase più bella è stata questa: «… che nessuno esca dal cerchio!» – Un congiuntivo che valeva come esortazione e come augurio. Esplicitamente si esprimeva così per lanciare un augurio, ma le parole risonavano nell’aria come accorata esortazione, invito forte a non staccarsi dal gruppo.
Suo marito Luca è nel gruppo da 14 anni. Quando, all’inizio di ogni incontro del sabato, le persone affette da alcolismo dichiarano i giorni di astinenza, Luca scandisce il suo numero, che ha superato ormai i cinquemila giorni. C’è chi è arrivato a tremila o a mille. Mio fratello è ‘astinente’ da 329 giorni.
Mi sembra di aver capito che chi entra nel gruppo tende a non abbandonarlo più. Non è una regola o un principio, un’ingiunzione dall’alto o una pressione esercitata sulle persone. Mi sembra che non ci siano regole da rispettare. Nessuno dice mai: «Devi fare così!». Eppure, c’è come una tacita intesa alla base della catena solidale costituita da sempre in quello stanzone terreno che non ricorda gli ambienti squallidi di certi ospedali del Sud.
C’è come un ‘non detto’, un ‘presupposto’ che li muove. Forse è la presenza dei più ‘vecchi’ a fare da collante. Una presenza silenziosa, in verità. Nessuno di quelli che hanno totalizzato alti numeri, astinenti cioè da anni, rivendica primati. Non è solo modestia. C’è qualcos’altro, che mi sfugge.
Si tratta di persone semplici, senza complicazioni mentali, che si ritrovano con grande serietà e severità a considerare il valore dello stare insieme, della famiglia ritrovata, del sapore nuovo che le cose hanno assunto da quando hanno deciso di non bere più.
Quando arriviamo, alle dieci del sabato, le sedie sono già disposte in cerchio. Nessuno altera mai la forma che assume la ‘catena’. Se il numero cresce, ci si allarga per dare vita a una catena più grande. Si ‘disegna’ un cerchio più grande. Siamo fatti così, a forma di cerchio. Non conosciamo altro modo di stare insieme. Prima di cominciare e dopo aver finito, non ci sono strappi, salti bruschi verso il cerchio o dal cerchio. Le emozioni sono le stesse. La stessa calma serena contraddistingue la presenza, gli interventi, il tono dei discorsi.
Ci salutiamo con vigorose strette di mano. Anche le donne hanno l’abitudine di stringere la mano e di trattenerla a lungo. Spesso si abbracciano. Ci abbracciamo. L’accoglienza che mi viene riservata è sempre calorosa. Quando mi sono assentato, in un sabato di dicembre, per un po’ di febbre, tutti si sono preoccupati della mia salute. Posso dire di far parte di quel gruppo, ormai. Mi è accaduto di pensare che non ne uscirò più. Farò come Luca. Anche se non sono io il diretto interessato – non sono io l’astinente -, mi sembra di poter dire che non uscirò dal cerchio. Se provo ad immaginarlo, mi sento di tradire, di abbandonare una schiera di persone alle quali sono ormai legato.
Il legame tenue che si è stabilito è fatto di tacite intese, di accorti giudizi. Il condizionale e la sfumatura lessicale abbondano. Ognuno ascolta in silenzio, senza interrompere mai. Non ci sono lunghi silenzi. Chi è invitato a parlare lo fa di buon grado, senza farsi pregare mai. Chi parla a bassa voce riesce a farsi sentire. L’attenzione è veramente grande. Sui volti stupore morale e compiacimento, per gli sforzi e per i risultati altrui.
Chi ringrazia non manca di elencare la conduttrice del gruppo e il gruppo. Nessuno ringrazia mai solo la conduttrice o solo il gruppo. Riconoscenza e umiltà sono palpabili. Lì si comprende cosa sia la grazia, se con questo termine intendiamo l’arrendevolezza della fantasia. I segni del tempo, infatti, che sono visibili sui volti di tutti, non tolgono le attrattive dell’anima, che traspaiono comunque. Mi sembrano tutti belli.
Evidentemente, vale anche per loro quello che ho potuto verificare con i ragazzi tossicomani che escono dalle Comunità: sono tutti belli. Naturalmente, si tratta di bellezza morale, di un’innocenza ritrovata che ha fatto parlare alcuni filosofi di innocenza seconda. La pulizia morale rende l’occhio limpido, lo sguardo vigile, il sorriso sempre pronto.
Cerchio, allora, non significa metodo psicoterapeutico. La terapia è in quell’accondiscendenza che non è mai complicità e che suona simpatia, medesimezza umana, quasi amicizia.
Il cerchio si compiace del bene che entra nella casa del vicino. Tutto l’incontro è un rincorrersi di sorrisi e sguardi benevoli e affettuosi. Un poeta medievale avrebbe buon gioco a dire: qui regna amore. Ma l’amore che lega e crea il cerchio è la solidale considerazione che ci si salva solo insieme.
Questo amore non viene dichiarato né riaffermato. Si nutre di considerazione e attenzione: tutti sono interessati a sapere come è trascorsa la settimana. Anche la vicenda familiare più ovvia viene raccontata e suscita interesse.
E’ rasserenante partecipare a quelle discussioni. Mi aiutano a riconciliarmi con la semplicità della mia vita, dalla quale amo allontanarmi per amore di complicatezza e per edificare schermi contro le emozioni.
In mezzo a quella umanità dolente non temo di dire le mie emozioni. Quelle persone hanno contribuito a fare di me una persona che esprime ad ogni piè sospinto quello che sente. Spesso e volentieri dico alle persone che provo affetto per loro. Non mi vergogno più di farlo. Comprendo che ogni occasione è un momento prezioso per farlo.
E’ per questo che le parole di Maria mi sono parse belle: «…che nessuno esca dal cerchio!». Comprenderete cosa volessi dire con la riflessione precedente, quando parlavo di congiuntivo. Avevo pensato inizialmente di intitolare quel testo: Elogio del congiuntivo, ma mi è sembrato pretenzioso, accademico. Oggi apparirà più chiaro, messo lì, dopo le parole di Maria, nel titolo di oggi.
Abbiamo bisogno più che mai di persone sagge che ci esortino al Bene e che si augurino per noi il Bene. Il loro congiuntivo non ci risulterà mai astratto e difficile da comprendere, se sarà sempre accompagnato dallo sguardo compassionevole di chi ha conosciuto l’errore e il male e sa che «alla fine solo il Bene è degno di considerazione».
Già negli anni Novanta del secolo scorso abbiamo fatto esperienza del cerchio, nei Corsi di formazione per insegnanti. L’Educazione alla salute nelle scuole veniva promossa dagli Psicologi che incominciavano ad entrarvi, con gruppi esperienziali, in cui il ‘vissuto’ personale era valorizzato fino all’enfasi. Si parlava dell’importanza di entrare in contatto con le proprie emozioni, per vivere meglio il contatto con le emozioni altrui, soprattutto con quelle dei ragazzi.
Tutte le volte, poi, che si è riproposta la necessità di fare gruppo, anche a scopo terapeutico, ci siamo disposti in cerchio. Sembra che non si possa fare diversamente e di meglio.
I miei alunni, dal primo liceo, chiedevano, dopo averlo scoperto, la prima ora del lunedì, per fare circle-time. In quel modo, avvertivano il bisogno di esprimere contenuti di coscienza che premevano, che ‘aspiravano’ ad ‘uscire’. Senza essere psicoterapeuti, abbiamo aiutato alcuni ragazzi ad accettare che dai compagni venisse una parola di incoraggiamento o l’esortazione chiara a scegliere, a cambiare. L’esortazione spesso si è fatta caldo augurio. Anche i ragazzi con determinazione e consapevolezza hanno usato il congiuntivo. Anche essi sapevano quanto sia importante costituire l’ideale catena che ci stringe e ci rende liberi, giacché lega i nostri destini a quelli degli altri. Solo così non ci sentiamo più in pericolo. E’ più difficle cadere. E se si cade, c’è accanto a noi sempre qualcuno pronto a scendere nel fosso, per darci una mano. Si apprende così l’importanza di usare il congiuntivo.
Tra le forme di disagio umano, la tossicomania è quella che appare maggiormente segnata da solitudine. Nelle fasi acute e quando la persona vada alla deriva, è importante che sappia in ogni momento che c’è qualcuno con cui poter parlare!
Il frastuono dell’informazione e la comunicazione tumorale ( = che non porta mai a una conclusione) fanno disperare oggi della possibilità di essere ascoltati veramente da qualcuno. Eppure, c’è chi è pronto a farlo!
L’attitudine all’ascolto è atteggiamento radicale. Massimo Cacciari ha scritto: «La creatura è nell’ascolto». Eugenio Borgna ha intitolato una sua opera addirittura Noi siamo un colloquio.
Il primo ragazzo morto che io ricordi è Domenico. Se ne andò nel 1990. Era vicino a noi. Di un paese vicino. Eravamo all’inizio della nostra avventura di Volontari. Non capivamo cosa avremmo potuto fare per lui: non era mai entrato nel cerchio. Di quelli che seguirono posso dire che la loro morte forse si sarebbe potuta evitare se non fossero usciti dal cerchio, se non si fossero allontanati da noi.
La prima lezione che ho appreso in quegli anni mi venne da Massimo Barra, il fondatore di Villa Maraini, a Roma. Durante un Corso di sei mesi per Operatori nel campo delle dipendenze, egli ci disse che la prima regola da ricordare è questa: un tossicodipendente vivo è sempre meglio di un tossicodipendente morto. Una traduzione di quella regola potrebbe essere questa: bisogna battersi con tutti i mezzi per tenere i ragazzi in vita. Il primo risultato che otteniamo con il lavoro sociale è questo: riusciamo a tenere in vita i ragazzi. Per questo, è importante che non escano dal cerchio. Quando se ne allontanano, per avventurarsi nella zona grigia, e la deriva prevale – quando, cioè, non si controllano più -, allora, il rischio che corrono è grande. Sicuramente più grande di quello a cui sono esposti quando tornano a casa la sera o quando si affacciano a trovarci nel Centro di ascolto, per appoggiarsi a noi, per trovare una sponda in quella sede, un riparo, una tregua.
Consapevoli dei rischi che corrono i ragazzi quando restano soli, noi preghiamo sempre che nessuno esca dal cerchio.