La prima volta che ho scritto è stato il giorno della morte di mio padre. Mentre scrivevo, decisi che quella pagina breve si sarebbe intitolata Erlebnis, ‘vissuto’, ‘esperienza vissuta’: esprimevo, infatti, per la prima volta una mia emozione, un contenuto di coscienza che forse avrei dovuto custodire gelosamente, come si dice. Invece, decisi di scrivere. Volevo fissare sulla carta tutto quello che mi stava accadendo, perché niente andasse perduto. Presto mi resi conto del fatto che si trattava di poco, che quel che mi accadeva fosse qualcosa di semplice, giacché di una sola emozione si trattava.
Io non avevo più paura.
Mi scoprii a pensare che la morte di mio padre era una sorta di ‘liberazione’. Ma potevo comunicare a qualcuno un tale sentimento, senza rischiare di essere frainteso? E scriverne non sarebbe stato altrettanto rischioso?
Il ‘salvataggio’ del file fu accompagnato da compressione del file stesso, con crittografia e ‘spedizione’ nel web in un’area inaccessibile.
Successivamente, decisi di pubblicare quella pagina sul mio sito, in bella mostra, perché intervennero altri sentimenti a rassicurarmi.
Per anni ho riflettuto su quella paura, sul timore reverenziale che provavo per mio padre. Evidentemente, mi aveva accompagnato per tutta la vita, fin quando era stato in vita. Non perché fosse irascibile. Non temevo più la sua ira, almeno da quando ero andato via dalla sua casa, subito dopo il matrimonio. Credevo, almeno, che fosse così. Non c’era motivo di temere la sua ira, perché non gli davo certo motivo per essere adirato con me. Eppure, avvertivo facilmente, anche standogli lontano, che sarebbe stato facile deluderlo e ferirlo e che questo lo avrebbe irritato.
Era un uomo semplice, che comprendeva solo le cose semplici della vita. Quest’ultima aveva un solo significato per lui. Discostarsi da quel significato poteva costituire l’occasione per deluderlo o per ferirlo.
Ho cercato a lungo le ragioni che mi legavano a lui, oltre la lontananza – quando uscii dalla sua casa – e oltre l’assenza – quando egli uscì per sempre dalla sua casa.
Ho percorso infinite volte la strada che portava dal mio cuore al suo e dal suo al mio, senza trovare risposte convincenti e definitive.
C’era stato un tempo in cui mi sembrava di essere simile a lui, almeno in certe reazioni emotive. Questo non mi piacque. Mi sentii troppo ‘vicino’ a lui.
Mi allontanai, senza tradirlo mai nel profondo, immaginando una famiglia diversa dalla sua, con meno figli. Avevo in mente spazi aperti. Avvertivo oscuramente che non volevo avere più paura. Realizzai la mia natura, lontano dalle sue paure.
Egli, ad esempio, aveva paura della politica; io l’abbracciai, come una ragione di vita. Essa fu per me una religione civile. Essa fu un esempio di ‘disobbedienza’. In questo, sicuramente lo tradii, perché non volli mai credere che la politica fosse ‘sporca’, come ripeteva stancamente, senza comprendere mai che ero mosso da alte idealità, che venivano dall’educazione religiosa che avevo ricevuto da lui…
Quando seppe – nel 1968 – che ero diventato comunista, mi aggredì verbalmente, ingiungendomi di non fare altro che potesse disonorare la famiglia. Il giorno della morte di Aldo Moro, quando rientrai disfatto a casa, mi chiese con tono grave: «Perché lo avete ucciso?». Fu allora che piansi per la prima volta. Incominciai a comprendere cosa fosse una scelta tragica. Mi resi conto dei crimini di pace che venivano commessi in nome della democrazia: la televisione aveva lanciato il chiaro messaggio che Aldo Moro era stato ucciso “dai comunisti”. Tutti quelli che avevano a che fare con quella parola avevano le mani sporche del suo sangue.
Quello che accadde poi tra me e mio padre fino a che punto fu segnato dalla differenza di sensibilità politica che ci divideva irrimediabilmente? Riuscì mai a comprendere che essere comunisti significava da noi solo stare dalla parte dei poveri e della gente che lavora?
La vecchiaia e la malattia introdussero la malinconia nella sua vita, ma non la rassegnazione. Non smise mai di predicare l’onestà a tutti i suoi figli. Presto compresi che il sentimento indistruttibile che mi legava a lui nasceva da lì, da quella virtù, che oggi non esito a chiamare l’unico bene.
Da lui ho appreso tutto quello che c’era da sapere della vita. Impiegato di banca, interpellato più volte dai suoi figli piccoli, che gli chiedevano come mai egli non riportasse mai denaro dalla Banca, nemmeno quando ce n’era in più, un giorno ci spiegò: quando, alla fine di una giornata, il cassiere scopre che manca del denaro, è facile risolvere il problema, perché non deve fare altro che rimettercelo di tasca sua – e questo sembrava rendere mio padre addirittura allegro; quando, invece, in cassa c’era denaro in più, il cassiere doveva giustificare la presenza di quel denaro – e questo rendeva mio padre cupo e pensieroso. A questo punto, noi eravamo sicuri di non aver capito. Ed è stato così per anni. Almeno fino a quando non si verificò un fatto importante, che mi aiutò a capire cosa volesse dire mio padre.
Negli ultimi giorni di dicembre, quando in tutte le amministrazioni si facevano i conti e si chiudeva la contabilità, con la verifica delle ‘carte’, mio padre non rientrò alla solita ora, la sera. Quell’anno non lo dimenticammo facilmente, perché mio padre era uno dei cassieri che dovevano giustificare la presenza di una grande somma di denaro in più. Egli poi ci raccontò che tutti si erano impegnati a cercare, anche i dirigenti Quando non ne potevano più per la stanchezza, essendo ormai la fine dell’anno, si arresero e cominciarono a mettere via una dopo l’altra le casse che contenevano i documenti cartacei. A quel punto, spuntò fuori una cambiale, che era attaccata sotto il fondo di una cassetta. Il suo importo era pari a quello del denaro in più trovato nella cassa.
Solo allora compresi che il denaro degli altri non si tocca. Mai. Compresi chi era mio padre. Compresi cosa fosse l’onestà. Compresi che da lui avevo appreso tutto quello che c’era da sapere della vita.
A distanza di anni, molti anni dopo la sua morte, mi sono ritrovato a pensare che io non avevo più paura, non perché non ci fosse più lui che potesse incuterla in me.
Io non ho paura, perché la pace che è scesa in me da quando sono diventato un uomo proviene da lui, dalla sua lezione.
Il timore che nella forma della Legge mi spingeva a non fare il male si era fatto lentamente spinta a fare il bene. Questo ho scoperto in me il giorno della sua morte. La libertà di cui godevo da tanto tempo si illuminava all’improvviso di luce nuova: non c’era più motivo di avere paura.
Da allora, so cosa debba essere cercato più di ogni altra cosa. Non c’è motivo di avere paura. Non sono solo.