Il sentimento penoso che ci prende quando si allontana l’oggetto del desiderio è noto almeno da un secolo, cioè da quando Freud raccontò l’esperienza del gioco del rocchetto a cui si dedicava il bambino, per esorcizzare l’angoscia da abbandono, in seguito all’uscita della madre. Egli aveva arrotolato un filo intorno a un rocchetto, che lanciava sotto un mobile gridando: “Fort!” (scompari!). Poi, lo tirava verso di sé gridando: “Da!” (ricompari!).
E’ stato detto che la manipolazione ludica è la risposta istintuale alla realtà. Il bambino esercita simbolicamente il suo ‘potere’ sulla realtà, come se potesse far sparire la madre e farla riapparire. Compensa l’assenza, come se fosse mancanza, perdita irreparabile, a cui pone rimedio ‘manipolando’ la realtà. Che cos’è tutta la nostra esistenza, se non tentativo ripetuto di esorcizzare lontananza, assenza, mancanza, perdita?
All’altezza del terzo liceo, nel corso della lettura di Petrarca, ho sempre lavorato per diversi mesi su questo tema, associandolo all’altro grande tema ‘petrarchesco’ dell’accidia.
Abbiamo tutti da elaborare, infatti, il sentimento luttuoso che ci prende ogni volta di nuovo, quando avvertiamo dolorosamente di essere stati privati – anche se per poco – del bene prezioso della presenza fisica delle persone che amiamo. L’intensità di questo sentimento dipende dal valore che abbiamo assegnato all’oggetto d’amore e dalla tensione che ci spinge verso di esso, ma dipende anche dal governo dei sentimenti, cioè dalla nostra capacità di sopportare la frustrazione che quotidianamente la vita ci riserva con l’esperienza della distanza.
Alcuni anni fa, durante l’estate, ho ricevuto una lunga lettera da un’alunna che per tutto l’anno aveva seguito le lezioni di Letteratura in silenzio, senza intervenire mai. Mi rivelava con il suo scritto che, in realtà, il lavoro di tutto l’anno, ma soprattutto quello che era stato fatto con la lettura di Petrarca, le era stato di grande aiuto per la sua educazione sentimentale. Ricevevo, così, una conferma della bontà dello studio tematico della Letteratura, assieme alla cura delle poetiche degli autori e alla lettura di un significativo numero di testi in classe.
Oggi si parla di libroterapia e di Pratica letteraria, per significare il valore addirittura terapeutico della lettura. Se si assegna alla Letteratura, come ho fatto dall’inizio della mia carriera di insegnante, valore conoscitivo, l’esercizio guidato della lettura si tradurrà senz’altro in una forma di igiene mentale, in un’autentica ‘purificazione’ delle passioni, grazie ai meccanismi di identificazione, di proiezione, di sublimazione che metteremo in opera con il lavoro di comprensione dei testi.
La terapia delle idee che ne consegue è conferma di quanto detto fin qui. La poesia d’amore di tutti i tempi, assieme alla canzone d’amore, non è forse veicolo di sensi sempre nuovi? non è un mezzo per trovare le parole? non è esercizio lessicale di esplorazione di sensi nascosti? non è illuminazione e conferma del personale sentire? non ci aiuta a ‘correggere’ rappresentazioni distorte della realtà? non ci aiuta a vedere?
L’esperienza dell’assenza dell’altro è ineludibile. Tanto vale, allora, farsene una ragione, come si suol dire delle cose che fanno parte dell’esperienza quotidiana.
Ai miei alunni ho sottoposto questa storiella inventata, per farli riflettere. Immaginiamo una ragazza che si presenti al suo ragazzo dicendogli: «Oggi non ci vedremo. Debbo accompagnare mia madre dal dentista». Il ragazzo presenterà le sue rimostranze, si opporrà fieramente, ricorderà all’amante ingrata un amore che lui ha messo al di sopra di ogni cosa, le chiederà come possa preferire sua madre a lui, alla fine la implorerà, la minaccerà, minaccerà il suicidio o di andarsene al cinema con qualcun altro… Niente servirà a scuotere la fanciulla irremovibile, che solo per poco ci apparirà dura e crudele. A ben guardare, si allontanerà dal suo amore solo per due ore, forse anche meno. Eppure, quelle ore costituiranno uno stillicidio per il nostro eroe: egli si consumerà nell’attesa, fino a scomparire del tutto. Di lui resterà poco, a cose fatte. La voce della fanciulla, reduce dalla missione odontoiatrica, rianimerà l’eroe, restituendogli gli spiriti animali e la voglia di vivere. Naturalmente, egli non avrà appreso nulla. Vivrà nella speranza che la sua amata non si allontani più, e se questo evento infausto si ripresenterà, puntualmente egli morrà.
Si potrebbe dire di lui quello che diciamo sempre quando qualcuno di noi si comporti come se nessuno lo amasse, come se mai fosse stato amato: Chi non ricorda il bene che ha ricevuto non spera. Eppure, basterebbe essere sorretti dall’idea che alla speranza è sempre congiunto il timore! Anch’esso fa parte della nostra esperienza esistenziale. Rinunceremo a sperare, per paura? Questo è un altro esempio forte della necessità dell’esperienza del dolore, per il governo di sé, dei propri sentimenti.
Se l’uomo è abitatore del tempo, la temporalità della sua esistenza è il precipitato di tutte le sue esperienze, il crogiuolo del suo esistere. Il tempo è la sua passione più grande. La sua salvezza, come singolo, dipenderà dalla capacità di durare di fronte a tutte le prove che la vita gli riserverà.
La parola distanza non dice solo spazialità. Anzi, dice soprattutto temporalità. Resistere alle ingiurie del tempo, quando esso lasci sulla nostra carne e nella nostra anima i segni vistosi degli anni, è compito. Per questo, io parlo di un’etica del pensiero e del linguaggio. Più che aborrire l’avvenimento, occorrerà imparare ad abitare la distanza, per tutte le volte che siamo destinati a farne esperienza.
La prova più grande, che riusciamo a superare senza fatica, è data dall’amicizia. Quando l’amico si allontani da noi, e per quanto grande sia il tempo della sua assenza, noi non patiremo la distanza. Il filosofo francese Jacques Derrida ha scritto che addirittura noi non proviamo alcun dolore per la mancanza di un amico che ci venga sottratto dalla sorte.
Se l’amicizia è la più grande delle virtù, forse l’ultima che ci sia rimasta secondo lo scrittore Kundera, allora da essa dobbiamo apprendere ad abitare la distanza. Il sentimento più forte e più delicato ci guiderà nel cammino della vita, insegnandoci ad accettare non solo le perdite e le mancanze ma anche i più lievi sommovimenti che talvolta sono all’origine di tante nostre tragedie.