Il primo a parlarne in questi termini è stato Gesù:
«Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a mettervi la pace, ma la spada. Perché io sono venuto a mettere disaccordo tra figlio e padre, tra figlia e madre, tra nuora e suocera, e i nemici dell’uomo saranno quelli di casa sua. Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me. E chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la ritroverà» (Mt. 10:34-39)
Le cose dell’amore, come Umberto Galimberti chiama l’insieme dell’esperienza amorosa, ‘prevedono’ due possibilità:
- che si viva tale esperienza in termini fusivi, come se si dovesse realizzare una superiore unità, non importa quanto irrazionalmente o forzatamente: conta l’azione ‘centripeta’ dei gesti e delle azioni, dei moti dell’anima come delle intenzioni;
- che si tenda alla realizzazione di sé indipendentemente da ogni attesa dell’altro: conta la capacità di camminare insieme lungo strade che non si incontrano mai, senza che, per questo, venga meno l’afflato amoroso.
La letteratura di tutti i tempi è un’immensa esemplificazione della prima possibilità. L’uomo senza qualità di Robert Musil, invece, è un esempio della seconda. La scoperta progressiva delle opere che non conosciamo condurrà immediatamente all’iscrizione dell’opera stessa al ‘partito’ della prima o della seconda possibilità. Ma qui, a noi preme indicare l’esistenza della seconda possibilità, che si consideri l’esistenza di personaggi come Ulrich e Agathe che ci appaiono impegnati a ‘dividere’ più che a ‘unire’.
“Il nostro desiderio non è di fare di due creature una sola, bensì di evadere dalla nostra prigione, dalla nostra unità, di diventare due in una congiunzione, ma meglio ancora dodici, un numero infinito, di sfuggire a noi stessi come in sogno, di bere la vita a cento gradi di fermentazione, di essere rapiti a noi stessi o comunque si debba dire, perché non lo so esprimere; allora il mondo contiene altrettanta voluttà quanto estraneità (…). Il solo sbaglio che potremmo commettere sarebbe d’aver disimparato la voluttà dell’estraneità e immaginarci di fare chi sa quali meraviglie dividendo l’uragano dell’amore in magri ruscelletti che scorrono su e giù fra un essere e l’altro” (Robert Musil, L’uomo senza qualità, trad. it., Torino, Einaudi, 1972, pp. 1102-1103)].
Rainer Maria Rilke riassumerà con queste parole il fallimento della tentazione fusiva:
“Ho capito perché dalla nostra vicinanza non è potuto nascere niente di reale: perché lei, o era me con tutte le sue forze e quindi soverchiante, oppure era il mio Contro Io e allora naturalmente un advocatus diaboli, un pallido doppio e costante oppositore, senza fondamento personale. Quanto possa aver sofferto di tutto questo è difficile da scoprire, è comunque stato inutile per ambedue e senza sbocco. Le belle lettere che di quando in quando mi scriveva, erano mie, lettere mie, nel mio stile, oppure non mi scriveva affatto” (R. M. Rilke – L. A. Salomé, Epistolario 1897-1926, Milano, La Tartaruga, 1992, p.173)].
Nelle sue Riflessioni sull’amore (1900) Lou scriverà:
«Sono sempre i nostri muri quelli contro cui urtiamo e su cui proiettiamo la nostra immagine del mondo, sia che cerchiamo di amplificare il nostro spazio, sia che vi accatastiamo i nostri beni.»
«Solo chi rimane completamente se stesso si presta alla lunga a venire amato, perché solo così, nella sua pienezza vitale, può simbolizzare per l’altro la vita, essere avvertito come una potenza di essa. Non vi è errore più grande nell’amore dell’adattarsi timorosamente l’uno all’altro e di uniformarsi a vicenda…».
«Un eterno rimanere estranei nell’eterna vicinanza è dunque il segno più pertinente e inalienabile di ogni amore in quanto tale: …non solo nel disprezzo o nell’amore non ricambiato, infatti, ma dappertutto, ovunque dove ci si ama, l’uno sfiora solo l’altro lasciandolo poi a se stesso. E’ sempre una stella irraggiungibile che noi amiamo, e ogni amore è sempre nella sua profonda essenza una segreta tragedia, ma proprio per il fatto di esserlo riesce ad avere effetti così potentemente produttivi».
Sarà stato forse il risultato catastrofico della sua tensione all’unità nella relazione amorosa a spingerla a questo approdo.
Per illustrare il significato dell’irriducibile alterità dell’altro, Cacciari ricorre ai versi di Antonio Machado:
Enseña el Cristo: a tu prójmo / amarás como a ti mismo, / mas nunca olvides que es otro. (Insegna il Cristo: amerai il tuo prossimo come te stesso, / ma non dimenticare mai che è un altro).
«Prossimo, infatti, è ciò che differisce «inesorabilmente» da noi. Prossimo è soltanto ciò che possiamo concepire come avente un proprio carattere e un proprio luogo distinti dal nostro carattere e dal luogo che noi occupiamo. L’ansia di eliminare la distanza non produce comunità, ma, all’opposto, ne dissolve la stessa idea. Può produrre comunità, invece, soltanto uno «sguardo» che custodisce l’altro nella sua distinzione, un’attenzione che lo comprenda proprio sulla base del riconoscimento della sua distanza. L’intelligenza del prossimo non consiste nell’afferrarlo, nel catturarlo, nel cercare di «identificarlo» a noi, ma nell’ospitarlo come il perfettamente distinto» (M.Cacciari)
La lettura di Amore e alterità di Remo Bodei può essere utile per i più giovani.
Ciò che precede mi porta a pensare – come mi accade di pensare da molti anni – che si spiega forse così il muro che divide spesso i fratelli: ognuno di essi tende a realizzare il sogno del padre, a farsene interprete fedele. In questo compito, si scontra fatalmente con l’interpretazione contrastante – necessariamente contrastante? – che ne daranno gli altri fratelli. In questo dissidio ho visto uno dei più grandi paradossi dell’esperienza: ciò che dovrebbe unire finisce per dividere! Ma cosa vuole veramente il padre dai suoi figli? Non dovranno forse essi realizzare la sua legge proprio infrangendola, cioè andando oltre la legge dell’amore, per realizzare una superiore e più desiderabile unità, oltre il padre?