Una delle esperienze importanti della mia vita è stata senz’altro la morte di Silvio. Un vecchio compagno di Partito, non tanto vecchio, poi. Egli aveva scoperto di avere un cancro all’apparato digerente che non lo avrebbe risparmiato. Studiò il decorso della malattia, i rimedi chirurgici previsti per il suo caso, la condizione di minorità in cui si sarebbe ritrovato. Radunò la sua piccola famiglia – un’assemblea, come si faceva a quei tempi – e mise all’ordine del giorno il da farsi. Non sappiamo cosa si dissero. E’ certo che accolsero tutti la proposta di Silvio. Egli non aveva nessuna intenzione di farsi tormentare dai chirurghi né di vivere come un invalido, con scarse possibilità di vita. Restò a letto, fino all’arrivo della morte. Prima di andarsene, volle che passassi da lui. A differenza delle visite che mi precedettero e che mi seguirono, che non dovevano durare che pochi minuti, mi trattenne per circa un’ora presso di sé. Mi raccontò tutto per bene. Mi chiese perdono, per le incomprensioni che c’erano state fra di noi nel Partito. Voleva che tutto fosse in ordine intorno a lui. In pace. Doveva far pace con me.
La commozione che accompagnò e che seguì meriterebbero un lungo racconto. Egli era una figura luminosa, un esempio di alta moralità per tutti. Gli lasciavamo sempre l’ultima parola, perché sapevamo che di lui potevamo fidarci sempre. L’età giovane mi consentì di non piangere, forse. Non ricordo. Oggi, sicuramente, lo avrei pianto lungamente, per il vuoto che avrebbe lasciato e per il suo coraggio di fronte alla morte.
Mi sono sempre chiesto come sia stato possibile che egli abbia rifiutato le cure. Evidentemente, è possibile.