Lunedì 9 febbraio 2009 l’azienda Mediaset ha ritenuto di non dover sospendere il programma osceno – per stupidità – intitolato Il grande fratello, impedendo al migliore dei suoi giornalisti – non pennivendolo – di tenere una trasmissione tematica sulla morte di Eluana Englaro. Le cagate pseudo-orwelliane della televisione commerciale battono la Morte: 1-0.
Qualche giorno prima il proprietario dell’azienda si era esibito in uno show – non sa fare altro – contro il Presidente della Repubblica, proponendogli il testo di un Decreto di 4 righe più osceno – per stupidità – del suo Grande fratello, al solo scopo di farsi dire di no, per far avanzare il suo programma piduista di demolizione dello Stato di diritto. Gli interessi privati del miliardario-che-ride battono la Morte: 1-0.
I gerarchi del vicino Stato della Chiesa, in quanto appaltatori della vita umana, della quale sono i soli ad intendersene, assieme al dolore umano (inventato 2009 anni fa ad opera dell’ebreo Gesù, da loro convertito al Cattolicesimo anti-conciliare), senza far ricorso all’uso di stupefacenti né di altri inebrianti, ma presi da inequivocabile necrofilia, si sono messi a sostenere che non bisogna pretendere di morire senza il loro permesso: se vai a sbattere con la testa e perdi coscienza, devi rimanere per decenni in attesa. Non hai il diritto di morire. Devi accettare di essere tenuto in morte – pardon, in vita – per consentire alle suore, che non hanno un cazzo da fare, di accarezzarti per decenni e di non farti sentire solo. Se tu, poi, ogni tanto tossisci o ti fai venire un’erezione, peggio per te!: diranno che non hai nessuna intenzione di morire! La necrofilia clericale batte la Morte: 1-0.
In una calda serata di agosto dell’anno 2000, invece di andare al mare – veramente, preferisco la montagna! -, me ne sono andato al Policlinico Umberto I di Roma, più precisamente al Reparto di Cardiochirurgia, dopo aver subito un infarto di cui non c’erano stati segni premonitori in precedenza… Dopo aver indossato il pigiama, mi sono spalmato sul letto, ma ho sentito subito dolore al letto. I medici poi hanno scritto sulla cartella clinica che era stato necessario intervenire, perché era sopraggiunto angor in posizione di riposo. Mi hanno chiesto se ero disposto a sottopormi immediatamente ad intervento, perché la Sala operatoria era libera. Di fronte ad un’offerta così allettante, che dici? Ne ho approfittato. Mi hanno preparato alla bisogna e trasferito colà. Ho salutato mia figlia e mi sono ritrovato sotto la grande lampada che acceca, come nei film. Iniezione endovenosa. Buio. Mi sono risvegliato in terapia intensiva, pieno di tubi. Dopo pochi giorni, mi hanno cacciato perché avevano bisogno del mio letto. Prima di partire, nei giorni successivi all’intervento, mi hanno anche chiesto se gradivo un po’ di morfina. Ho detto: “No. Grazie!” Come avrebbe detto il personaggio femminile interpellato sull’argomento droga, nel film Così parlò Bellavista, non digerisco nemmeno i peperoni, figurati se mi vado a cercare la droga! Dopo l’intervento, subito a casa. L’esperienza importante, però, fu quella precedente: le settimane successive all’infarto, alcune delle quali trascorse nell’Ospedale civile della mia città. Feci sapere che non gradivo visite. Con astuta cattiveria, decisi di non offrire ai miei colleghi l’opportunità di sentirsi buoni e umani, cioè di soffrire tanto per me. Appena arrivato al Pronto soccorso e dopo il trasferimento nel Reparto Cardiologia, al quarto piano, avevo con me Moby Dick di Melville e Danubio di Magris: mentre mi riempivano di flebo, leggevo placidamente. I medici spaventati si affacciavano ogni tanto, per verificare che il dolore da infarto si fosse calmato. Ho scoperto successivamente che un mio amico anestesista si era arrabbiato con loro perché non mi avevano dato morfina. In verità, il dolore era sopportabile.
Nei mesi successivi sono stato trattato da ex alunni e qualche adulto timoroso alla stregua di un eroe. Inizialmente, non ho capito. Dopo mi sono reso conto del fatto che non mi ero lamentato mai, che non mi ero cagato sotto, che non avevo chiesto nessun intervento divino a sostegno… Insomma, ero (quasi) un eroe. L’esperienza, in realtà, fu utile per me. Mi fece scoprire che non avevo (non ho) paura di morire.
La buona educazione cattolica ricevuta – allora, la Morte era rispettata – assieme a massicce dosi di stoicismo senecano, mi aveva fatto crescere nella consapevolezza della mia condizione mortale. La mia suora – allora, le suore non si limitano ad accarezzare i morti – alle Elementari ci diceva che dovevamo pensare alla Morte almeno 9 volte al giorno. Noi non tenevamo il conto, perché le pratiche religiose ci impegnavano già parecchio su altri fronti, ma un pensierino alla Morte ogni tanto riuscivamo a riservarlo. Sta di fatto che la Morte una era! Era naturale. Si moriva di vecchiaia e di malattia. Ci terrorizzava la Morte, ma il suo pensiero era cultura condivisa: ne parlavamo tutti i giorni, per esorcizzarne gli aspetti più negativi, come il rischio della morte dell’anima. A furia di pensarci, dopo qualche decennio è diventata per me “sorella Morte corporale”. Il De brevitate vitae mi ha insegnato a prepararmi all’appuntamento. Cosa volete che vi dica? Sono pronto. Non che io abbia fretta! Per carità! So per certo, però, che farsi (ri)crescere i capelli, truccarsi da giovane, rassodare i muscoli e andare dal coiffeur invece di andare dal barbiere non cambia il dato anagrafico: ho 60 anni. Io non credo che vivrò per più di quarant’anni ancora! Nella famgilia di mia madre, sono morti tutti oltre i 90 anni. Invece, dalla parte di mio padre, sono durati poco più di 80 anni. Insomma, temo che non mi spettino più di 20-30 anni.
Ho iniziato ad insegnare subito dopo la laurea. L’ho fatto fino a giugno 2008. Ho scoperto, subito dopo – ma io lo sospettavo – che è bello non fare un cazzo dalla mattina alla sera. In verità, leggo e scrivo. Prevalentemente, contro il miliardario-che-ride, perché è più bello di me. Proseguo, così, la mia partita a scacchi con la Morte, che ci resterà sicuramente di merda quando si renderà conto del fatto che non ho paura di lei, perché sotto sotto continuo a pensare con i ragazzi del Settantasette che è meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine.