Sarà vero quanto affermava René Char a proposito della morte dell’amico Martin Heidegger, che sarebbe stata cosa “lieve da portare”?
Altri poi diranno che la morte dell’amico non arreca dolore alcuno, come se non fosse mai andato via nessuno! Come se non mancasse nulla intorno! E nessun vuoto fosse intervenuto a generare angoscia!
Certo è che, tra le cose che attendiamo con timore, il venir meno di chi più ha significato per noi è un evento catastrofico o supposto tale prima che si verifichi. Freud parlò della morte del padre come dell’evento catastrofico nella vita di un figlio maschio.
Chi, però, più di tutti ha contribuito a far pensare ai modi di morire è stata Simone de Beauvoir, con il racconto della morte di sua madre: una morte dolcissima. Fu mai concepito un ossimoro più imprevedibile? Il tempo ci ha abituati all’idea dell’amarezza della Morte. Un morte dolce, anzi dolcissima!
Non è solo di fronte all’imponderabile e all’Irrappresentabile che ci assale l’angoscia che ci fa agire scompostamente. Talvolta ci scontriamo con l’insormontabilità della spudoratezza, con il contrasto che non si lascia comporre, con l’ostinazione aggressiva di chi non sa bene cosa voglia, eppure procede a testa bassa contro di noi, non per sfondare un muro, quanto per fiaccare le difese, per indebolire ogni metro delle mura erette per proteggere l’anima dagli assalti dell’immortale volgarità umana.
E’ allora che viene in nostro soccorso un aiuto insperato, che sale dal cuore, e che ne è l’espressione alta. Quale saggezza, infatti, risulterà più convincente ed efficace della grazia, cioè dell’arrendevolezza della fantasia? Abituati a riferire tale qualità all’anima femminile, non vediamo spesso in quale misura si richieda a tutti noi, invocata ad ogni piè sospinto, più spesso trascurata, ignorata!
Oh, lasciarsi trafiggere dalla luce dello sguardo adirato di chi sappiamo già quanto poco conforto ricaverà dalle nostre spiegazioni! Ci proveremo, certo!, ad arginare la piena, ripetendo la canzone che non suona familiare alle orecchie indurite di chi non vuol sentire. Abituati ad alzare la voce per sopravanzare chi si leva al di sopra di noi, quasi a volerci superare perfino con lo sguardo, che deve colpire a sua volta, spaventare e zittire, è bello riuscire ad essere pacati, abbassando i toni non solo della voce! Sentirsi modulare le risposte dolcemente, come se avessimo di fronte un’esistenza fragile e indifesa e noi fossimo chiamati al compito arduo di chi fa un passo indietro, pur sapendo di avere ragioni in gran numero da vendere!
Ci accade pure di stupirci di noi, del nostro paziente argomentare, sostenuti dalla memoria, che ci fornisce esempi e parole utilissime allo scopo che inseguiamo. Non pensiamo solo di dover placare un’anima inquieta. Questa pure ci turba e disorienta, ma sappiamo che non deve trapelare alcuna forma di spavento. Dobbiamo restare presso di noi, intenti a trovare le parole. Sentire una voce bassa ammansire la fiera che si avventa contro di noi è compenso inatteso. E’ già compenso riuscire a mostrare il lato amoroso di sé.
Riuscire a concepire che si possa andare nella direzione opposta rispetto a quella che sarebbe più ovvio prendere, ben sapendo che la strada più volte percorsa non portò mai a risultati degni di nota, è scoperta della mente ospitale che vorremmo essere e che non sempre riusciamo ad essere compiutamente e definitivamente. Anch’io avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale in situazione, per ripresentarmi come potenza della vita, sponda, rifugio.
Riuscire in questo compito è concesso solo a chi abbia compreso cosa sia il pensiero del cuore, l’ordine di un sentire che è fatto di valori tattili: si tratta di arrivare a toccare il cuore degli altri, non per procurare facili emozioni né per commuovere. Per scuotere l’anima, sì. Perché si dipinga all’improvviso sui volti uno stupore nuovo, ché di rugiada si trattò, di un velo tenue di brina mattutina che annunciava suoni inauditi, l’ansito breve e impercettibile della vita che sta lì, invisibile davanti a noi.
Tra le conquiste dell’età adulta c’è questa, che giunse insperata a colorare i giorni: la capacità di abbassare la voce, per potermi inchinare meglio di fronte a Michele, il nipotino di due anni appena, che si erge oggi al di sopra di tutti i miei Maestri, che pure sono stati tanti. Un amico che mi è venuto in dono recentemente – Baldo Lami – ha scritto che dai bambini ci verrà il sapere nuovo, a loro dovremo guardare per comprendere cosa di nuovo l’umanità abbia da dire a tutti noi. E’ Michele, oggi, che nutre la mia fantasia, invitandola ad ogni piè sospinto alla paziente scuola della vita che avanza incerta al mattino.