FEDERICO RAMPINI, Le dieci cose che non saranno più le stesse

Dieci cose che cambieranno nel mondo dopo la crisi

di FEDERICO RAMPINI

La Grande Recessione del 2007-2009 può davvero concludersi prima che abbiamo fatto in tempo a imparare qualcosa, a isolare i responsabili, a curarne le cause, a prevenire una ricaduta? C’è in giro una gran voglia di voltare pagina senza avere regolato i conti. Nella speranza assurda che si possa ripartire da dove ci eravamo fermati l’altro ieri, con gli stessi valori, le stesse regole di prima.
Per fortuna ci sono segnali di altra natura. Uno di questi si chiama Kedamai Fisseha. Cittadino americano di origine etiope, a 22 anni si laurea in economia e commercio alla prestigiosa università di Harvard. Un anno prima della tesi aveva fatto uno stage a Wall Street, alla banca Morgan Stanley. Adesso invece ha deciso di arruolarsi nel programma Teach for America. E’ un’organizzazione non profit che recluta neolaureati per mandarli a insegnare nelle scuole dei quartieri più poveri e degradati delle metropoli americane. “Mi considero fortunato – dice Fisseha – la crisi in fondo è stata una liberazione per me”. Lawrence Katz, docente di Harvard, censisce le carriere professionali di tutti i laureati della sua superfacoltà dal 1960 ad oggi. “Fino a poco tempo fa la carriera nella finanza attirava i primi in graduatoria. Oggi non è vero che Wall Street abbia smesso completamente di assumere. Sono i ragazzi, o almeno una parte di loro, che stanno cambiando interessi e valori”.

Verso questi ragazzi che si orientano per il loro futuro, e verso noi stessi, abbiamo un dovere: non sprecare questa crisi. E’ urgente un’operazione-verità che metta a nudo le cause profonde di un disastro che non è finito. Guardando anche oltre i gravi danni sociali, abbiamo bisogno di diradare la nebbia all’orizzonte. Ci servono delle mappe per orientarci, una guida di comportamenti, un manuale di sopravvivenza.

Dobbiamo capire come ne usciremo, con quali regole del gioco, quali nuovi equilibri e rapporti di forze: sul nostro luogo di lavoro e nella gestione dei risparmi; nelle nostre scelte di consumo e nell’impatto sull’ambiente. In quale mondo vivremo, con quali attori, dentro quali equilibri globali. Vogliamo sapere perché l’economia di mercato non sarà più la stessa, e a cosa assomiglierà la sua prossima versione. Come attrezzarci a vivere con la deflazione, o quel che verrà dopo la deflazione. Quale cultura si affermerà nelle aziende. Cosa cambia nelle banche e nel nostro rapporto con il credito. Quale choc o controchoc può arrivare dal fronte dell’energia e delle materie prime. Cosa resta dei “modelli” esaltati negli anni precedenti, dall’America alla Cina. E se la Grande Recessione può partorire, come la Depressione degli anni Trenta, una corrente di cambiamento durevole nei sistemi politici, nelle ideologie dominanti, nei valori etici.
(…) I mezzi dispiegati per evitare il peggio sono stati colossali. Hanno ordini di grandezza che superano l’immaginazione. Sommando gli aiuti di Stato agli istituti di credito e le operazioni di rifinanziamento d’emergenza effettuate dalle banche centrali, a marzo del 2009 si arrivava a un totale di 5.500 miliardi di dollari (…). Aggiustato per tener conto dell’inflazione, l’onere dei salvataggi bancari è sette volte il costo della guerra nel Vietnam. 23 volte il programma spaziale Apollo con cui l’America arrivò sulla luna. 47 volte il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale.
Tra Borse, obbligazioni, case, dall’estate del 2007 in poi è stata distrutta una ricchezza pari a 50.000 miliardi di dollari. E’ quasi l’equivalente di un anno di Pil mondiale. Proviamo a tradurre questi macrofenomeni in termini di bilanci familiari: quanti possono reggere se un anno intero di reddito va in fumo? Qualsiasi cosa ci raccontino le statistiche mese per mese, un evento di queste proporzioni lascia tracce durevoli nella psicologia collettiva. Resta un’eredità d’incertezza, di cautela nello spendere e nell’investire. Non c’è manovra di aiuti pubblici che possa sanare rapidamente queste ferite. L’intera società è pervasa dalla diffidenza.

(…) Nel futuro del Vecchio continente potrebbe esserci la “sindrome giapponese”. L’uscita dalla crisi può prendere le forme di una ripresa finta, anemica, senza crescita. Una bonaccia in cui tutti i nostri mali diventerebbero cronici, insolubili: dal debito pubblico alla crisi previdenziale, dal precariato alle tensioni sociali. Il naufragio del modello giapponese deriva proprio dall’incapacità delle classi dirigenti di Tokyo di capire la deflazione-depressione degli anni Novanta. La loro lentezza nell’affondare il bisturi dentro un sistema bancario disastrato; la timidezza delle misure per il rilancio dei consumi interni; il rifiuto dell’immigrazione come rimedio alla denatalità. Sono tutti sintomi oggi presenti anche in Europa. La prospettiva di un orizzonte piatto, senza sviluppo, può piacere ai fautori della de-crescita, che vedono nella “idolatrìa del Pil” la radice di tutti i nostri mali: a cominciare dalla distruzione dell’ambiente. Ma se si realizza il loro desiderio, le delusioni potrebbero essere amare. Nella grande bonaccia dove troveremo le risorse per investire in tecnologie verdi, per aumentare i fondi pubblici alla scuola, all’università, alla ricerca scientifica?

(…) Se la Grande Recessione ha avuto tra le sue cause economiche l’aumento delle disparità sociali, aggredire questo problema diventa doppiamente prioritario. E’ il modo per rilanciare una crescita sana, basata su un potere d’acquisto meglio diffuso, anziché sull’economia del debito. Ed è anche una terapia per molte malattie sociali che ci affliggono.

(…) La Depressione degli anni Trenta fu uno di quei momenti della storia in cui interi sistemi di valori vengono ribaltati, si crea una nuova etica civile. Temprata dalle sofferenze, quella che gli americani battezzarono The Greatest Generation riscoprì la fede nell’azione collettiva, l’utilità del sacrificio, la solidarietà, il dovere dello Stato di agire per il bene comune. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: su quella del XXI secolo il verdetto è aperto.

Repubblica online, 29 maggio 2009

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