Lasciare che sia il tempo a decidere per noi di cosa debba restare traccia nella memoria personale è rischioso, non solo per l’azione corrosiva del tempo, ma soprattutto per la natura di alcune esperienze che sono state segnate da elevata temperatura emotiva.
Il vecchio che legge è stato ripreso da me all’ingresso di una piccola Sinagoga che occupa il posto di quella che sarebbe stata la più antica Chiesa cristiana, a Gerusalemme. Ho scelto lui oggi, perché l’elemento ebraico non è stato preponderante nel Pellegrinaggio a cui ho partecipato dal 29 giugno al 6 luglio, attraverso Nazareth-Tiberiade-Qumran-Betlemme-Gerusalemme-Emmaus. Vorrei parlare distintamente delle tre culture maggiori incontrate, riservandomi di trattare quella cristiana per ultima, dopo quella ebraica e quella musulmana.
A differenza degli altri partecipanti al viaggio, sono stato attento a tutti i segni della presenza ebraica, per un antico amore che mi porto dentro, che mi ha fatto subito notare la mezuzzah affissa allo stipite della porta della camera d’albergo, a Nazareth e a Gerusalemme. Il pensiero è andato subito al romanzo I fratelli Ashkenazi di Israel J. Singer, in cui per la prima volta ho sentito parlare dell’oggetto presente in tutte le case della shtetl dell’Ostjudentum. Ritrovarla sulla porta di una camera d’albergo e poi al ristorante, sulla porta di vetro che conduceva alla sala da pranzo, ha generato nuove domande in me e il desiderio di tornare a studiare la cultura ebraica, per custodire meglio il ricordo dell’esperienza recente.
Quando il pullman ha costeggiato il rilievo collinare su cui è situato Yad Vashem, il Museo della Shoah, e la guida ha ricordato il lavoro di Simon Wiesenthal – il cacciatore di nazisti -, la vista dei sei milioni di alberi piantati intorno, con i nomi di altrettante vittime della Furia nazista, ha provocato in me il ricordo di Mauthausen e di Terezín, di Primo Levi, di Edith Stein, di Etty Hillesum, di Simone Weil, di Elie Wiesel. Mi è tornata in mente la ricerca fatta oltre trent’anni fa, quando indagando sul mio nome speravo di scoprire di essere di origine ebraica. Quando studente universitario manifestavo per la Palestina, il mio cuore era lacerato. La terra contesa ospitava due popoli che amavo di diverso amore, ma che non riuscivo ad immaginare nemici per sempre.
Ora mi ritrovavo a Nazareth a considerare quello che la guida descriveva come un modo di convivere doloroso: i due popoli si sono rassegnati a stare nella stessa città ignorandosi.
A casa, sono andato a rileggere su Il pensiero storico classico II,2 di Santo Mazzarino – il mio professore di Storia romana all’Università – la Nota 555, intitolata L’intuizione del tempo nella storiografia classica. Cronologia (pp.412-461). In essa viene sottoposta a critica la contrapposizione tra concezione ciclica del tempo e concezione lineare, come espressioni filosofiche capaci di rappresentare rispettivamente la Zeitauffassung greco-romana e quella giudaico-cristiana. Il mio amore per l’ebraismo è nato da lì, da quel testo erudito che mi introduceva alle delizie della Filosofia della storia oltre che alle interpretazioni del tempo storico. Per oltre venti anni, poi, ho lavorato all’approfondimento delle questioni legate al tempo messianico, alla visione cristocentrica della storia, alla demitizzazione del linguaggio biblico… Ho potuto scoprire, così, la grande letteratura ebraica di lingua tedesca, che del rapporto con la religione, con la teologia, con la divinità si è nutrita per un secolo intero, contribuendo ad introdurci ad una visione del mondo più disincantata ma nello stesso tempo più pensosa dei destini individuali.