La pubblicazione su MicroMega 4/2009 di PIERRE HADOT, La figura del saggio nell’antichità greco-latina – preceduto da una lucida presentazione di Barbara Carnevali, La saggezza degli antichi e il sapere dei moderni – di cui ho preso visione ieri, mi aiuta oggi a definire finalmente in modo compiuto il ‘cammino’, l’approdo, il ‘metodo’ definitivo, che si riassume nell’idea che la filosofia debba essere intesa come un modo di vivere, che essa aiuti a vivere, se per filosofia si intende non la teoria ma la pratica, non la scienza ma la saggezza: la filosofia pratica, la phronesis. A scuola – in cui l’ho praticata per trentacinque anni, prima che nascesse la Consulenza filosofica! – e poi in un Centro di ascolto per ragazzi tossicodipendenti e per le loro famiglie – in cui la pratico dal 1989 -, la filosofia come modo di vivere non è stato contemplazione, lettura di testi e basta, produzione di idee: ho fatto cose con la filosofia.
Ho dato senso alla mia esistenza, attraverso l’esperienza ripetuta del dolore. Ho tentato il governo dei sentimenti, attraverso l’esperienza dell’amore e della libertà, dell’amicizia e del tradimento. Ho osservato il dolore altrui e sono stato accanto all’Ombra. Ho sperimentato l’avventura delle idee con la religione e con la politica. Ho costruito il mio carattere, imparando a tenere a bada l’Ombra. Ho praticato la virtù del dono e della giusta attesa. Ho dato un nome alle cose e ai moti dell’anima. Ho lavorato sul significato delle parole e dei nomi. Ho conosciuto il Rancore, il Risentimento, l’Odio inveterato, l’Invidia e la Gelosia, l’Indifferenza e la passione sfrenata. Ho cercato la misura e l’equilibrio, senza disdegnare l’entusiasmo e la passione politica e morale. Ho imparato a distinguere il Bene dal Male. Ho dato loro un nome e ho scelto il Bene. Ho prediletto la Compassione e la Benevolenza, l’arrendevolezza delle passioni e la Perseveranza, il Coraggio e la Fedeltà. Ho combattutto la Paura in me e l’invincibile Timidezza, senza scansare mai il Pudore e la Vergogna. Ho difeso l’Innocenza e la Purezza, la Mitezza e l’autenticità della parola sincera, veridica. Ho accolto la Gioia ringraziando per il bene ricevuto, soprattutto per le piccole cose. Ho onorato il Padre e la Madre. Ho insegnato il Rispetto e la Benevolenza. Ho indicato le strade da percorrere a chi era smarrito, senza rinunciare a tenere per mano chi lo richiedeva. Ho considerato sacro chi si affidava a me, senza tradire mai la Fiducia che l’Ospitalità richiede. Ho accettato la mia condizione mortale, riconoscendo finitudine e colpa. Ho combattutto l’Irredimibile e l’Imprescrittibile, perché ci fosse spazio per il Perdono e per la Pietà. Ho amato la Giustizia e la Libertà e per esse ho sofferto più che per qualsiasi altra cosa. Ho praticato la Fermezza e la Gentilezza con i deboli, perché si affidassero alle mie cure e scegliessero la libertà dai ceppi e dal peccato. Ho amato la Saggezza racchiusa nelle opere di coloro che mi hanno preceduto, camminando sempre sulle loro spalle.
La filosofia non appartiene ai filosofi, ai professori universitari e meno che mai ai professori di liceo! I libri di filosofia si trovano nelle biblioteche e si acquistano nelle cartolibrerie. E’ lecito leggerli per ricavarne idee per l’azione, per migliorare la vita, per imparare ad affrontarla con dignità. Senza chiedere il permesso a nessuno.
Barbara Carnevali con il titolo dato alla sua presentazione orienta il lettore verso la distinzione cruciale per noi: saggezza degli antichi / sapere dei moderni. Hadot non dice compiutamente cosa egli pensi del sapere dei moderni: l’interesse preminente per la saggezza degli antichi, l’idea stessa di saggezza come qualità umana perduta, la restituzione alla filosofia greca del suo significato proprio – come modo di vivere – autorizzano, tuttavia, a pensare che egli creda di più a quella saggezza che non al nostro modo di intendere il sapere, da Cartesio in poi.
Il saggio tradotto da Carnevali è una sintesi rappresentativa dell’opera di Pierre Hadot.
Nel tema della saggezza si riassume la concezione della «filosofia come maniera di vivere» che ha ispirato l’intera carriera di Hadot.
La saggezza è quella forma di sapere che non si esurisce in un sistema di conoscenze astratte, ma che trasforma attivamente l’esistenza di chi la possiede, concretizzandosi in una pratica, in un modus vivendi.
La saggezza si affida preferibilmente alle forme orali di trasmissione e a quei generi filosofico-letterari – meditazioni, monologhi, dialoghi, epistole, consolazioni, massime, riflessioni – che sono più marcati dal rapporto con l’affettività, dalla diversità dei contesti e delle occasioni in cui si articola la vita quotidiana.
Il suo genere fondamentale, la sua forma di trasmissione più appropriata ed efficace, resta tuttavia il bios, il «testo» dell’esistenza individuale, in cui il sapere può incarnarsi assumendo forma umana.
Per trasformare la vita non basta comunicare un discorso, ma serve quel coinvolgimento totale della sfera pratica, dalla volontà al desiderio agli affetti, che si ottiene con espedienti psicagogici, volti, appunto, alla «seduzione delle anime», il più efficace dei quali consiste nell’esemplarità in prima persona.La saggezza si esprime come forma di vita e si incentra sulla pratica dell’esercizio spirituale: «una pratica volontaria, personale, destinata ad operare una trasformazione dell’individuo. Una trasformazione di sé».
L’insegnamento degli antichi è riconoscibile in quei pensatori che hanno rifiutato il modello dominante di filosofia, come Montaigne, Goethe, Kierkegaard, Rousseau, Nietzsche, Sartre, Thoreau, Wittgenstein, Petrarca, Erasmo.
La conoscenza vera si distingue per il suo carattere «etopoietico», produttivo di ethos. Essa deve garantire all’uomo, oltre che l’accesso a un mondo di verità oggettive e universali, anche una trasformazione positiva delle condizioni morali della sua esistenza.
C’è, tuttavia, una distanza immensa tra l’immagine della beatitudine contemplativa illustrata da Aristotele e l’idea di felicità più terrena, edonistica e utilitaria cui pensa la maggior parte degli scienziati, come anche dei filosofi, moderni.Un’altra caratteristica della saggezza degli antichi era quella di essere «saggezza del mondo». La condizione essenziale che permetteva al saggio antico di farsi luogo della ricongiunzione tra felicità e conoscenza era la capacità di posizionarsi correttamente all’interno della totalità cosmica, arrivando a riconoscere, accettare, addirittura «volere» il proprio posto, relativo e insignificante, nella grande scala dell’essere. In questa operazione di decentramento cosmico della soggettività, di relativizzazione del punto di vista umano, di ridimensionamento delle prospettive e dei fini privati, individuali, parziali, consisteva la vera natura degli esercizi antichi, il cui scopo era quello di promuovere l’adesione spontanea della coscienza alla normatività naturale.
Tale fine non è estraneo alla figura del saggio moderno, come mostra l’importanza del «vivere secondo natura» nel pensiero di Montaigne, come anche di Rousseau e di Goethe. Ma è la nuova voce autobiografica, così tipica di questi tre autori al punto di averli resi figure per antonomasia della soggettività moderna, a rivelare come ormai sia l’io, e non il mondo, a occupare il centro della scena. Il parlare di sé, che nell’antichità costituiva un tabù retorico-morale, finisce per stravolgere il colloquio con se stessi che nelle intenzioni dei filosofi antichi doveva servire a riconoscere l’immensità, la superiorità del mondo, e ad accettarne la necessità. Nel tentativo di recuperare un ruolo per sé, il soggetto diventa protagonista, trasformando la tecnica dell’esercizio spirituale in un espediente di esibizione narcisistica.
[Sintesi schematica del saggio introduttivo di Barbara Carnevali, di cui sta per uscire Le moi ineffaçable. Exercises spirituels et philosophie moderne – Mélanges en honneur de Pierre Hadot, a cura di J.-Ch. Darmon, A.Davidson e F.Worms, Éditions Rue d’Ulm, Paris]
Per quanto mi riguarda, intendo in questo modo i quattro esercizi spirituali che Hadot ha scoperto nella cultura pagana:
Imparare a vivere = assumere la filosofia come modo di vivere, phronesis, saggezza. E’ possibile rinvenire le tracce ricchissime di questa saggezza nell’arte, nella letteratura, nella filosofia.
Imparare a morire = assumere quotidianamente la finitezza della condizione umana, sullo sfondo della temporalità dell’esistenza, intesa come la dimensione più propria dell’uomo. Il tempo è la forma di vita in cui si manifesta l’esistenza umana.
Imparare a dialogare = instaurare la dimensione dell’intersoggettività che sola valorizza il linguaggio umano, da cui origina il colloquio con l’altro.
Imparare a leggere la vita altrui, il testo della vita altrui, allargando la considerazione della forma di vita che le è propria ai giochi linguistici (il ‘contesto’) in cui si esprime.
Leggere: MICHELA GIANGUALANO, Gli esercizi spirituali come pratica di libertà