Qui, di fronte al Deserto di Giuda, abbiamo rinnovato le nostre promesse: abbiamo ‘giurato’ fedeltà alle Beatitudini.
I pochi momenti di ‘preparazione’ riservati al viaggio che si sarebbe fatto quest’anno in Terra Santa sono stati dedicati da don Antonio Mazzi a una sola idea: andare alle radici di una profezia, percorrere insieme le tappe che illustrassero il nascere di una profezia. E questo è stato il viaggio. Nei giorni dal 29 giugno al 6 luglio abbiamo dormito a Nazareth e a Gerusalemme; ci siamo spostati dalla Galilea – valle di Esdrelon, Haifa, Nazareth, Tabor, Cana, lago di Tiberiade e Cafarnao – alla Samaria alla Giudea – Gerico, Gerusalemme, Qumran e Mar Morto, Ain Karem, Betlemme, Emmaus.
Le tappe a noi note dell’Annunciazione, dell’Incarnazione, della Nascita, della crescita, della predicazione, della persecuzione, della morte, della resurrezione sono state toccate mirabilmente con il sostegno di una guida preparatissima, che ha saputo intrecciare storia, archeologia, arte, preghiera, escatologia. Luoghi in cui non c’è quasi più traccia del passato glorioso sono stati rivissuti, grazie all’intervento della sua parola, a conferma del fatto che viaggiare è difficile.
Il momento più alto per gli Educatori di Exodus è stato ritrovarsi di fronte al Deserto di Giuda, dove è stata celebrata una Messa su un tavolo di fortuna, con pane azzimo spezzato in cento parti – tanti eravamo – e vino raccolto in una insalatiera da cui abbiamo attinto il vino con un piccolo bicchiere di plastica. Immersi nelle solitudini arse di quel luogo, ci siamo stretti in cerchio prendendoci per mano e abbiamo rinnovato le promesse: abbiamo giurato fedeltà alle Beatitudini, alle prime tre – Beati i poveri, Beati i pacifici, Beati i limpidi – e a una quarta, inventata da don Antonio: Beati coloro che prevengono. Barbara di Assisi ha intonato per noi: Beati… Noi abbiamo promesso, aggiungendo: Beati.
Per Exodus, la Beatitudine più importante è la prima: Beati i poveri.
L’esercizio spirituale più difficile che sto praticando dal 1992, cioè da quando ho incontrato di persona la prima volta don Antonio, nella sede di Exodus di Cassino, è, appunto, il ‘rispetto’ della Povertà.
Alunni e Colleghi avranno forse pensato di me, negli anni di scuola, che ero sciatto e trasandato, poco preoccupato della cura della persona. In realtà, un modo di praticare la Povertà da parte mia è stato quello di non comprare troppi vestiti. Avevo – ed ho – un solo paio di scarpe (sempre nere), camicie e maglie di poco pregio, senza ‘firma’, colori dimessi, fazzoletti di colore bianco, calze tutte nere. Delle altre forme prescelte preferisco tacere.
Agli studenti di quinta liceo ho sempre presentato il canto XI del Paradiso di Dante – il canto di San Francesco – con un’esaltazione sobria della Povertà, ma non ho mai rinunciato a indicare un modo di condursi che anche un ricco può abbracciare. Indipendentemente e a dispetto delle risorse materiali di cui disponiamo, possiamo non servircene, non ostentarle, vivendo con frugalità e parsimonia.
Soprattutto, possiamo perseguire e custodire il bene più grande: la pace del cuore. Ai ragazzi che escono dalle Comunità, a conclusione del programma di ‘recupero’, dico di solito che una cosa deve essere verificata, per esser certi che le cose siano andate bene: se sia stata raggiunta la pace.
Essere in pace con se stessi è la condizione prima per condurre una vita buona, nella consapevolezza di sé e nella considerazione paziente degli errori del mondo.