+ + + + + + + + + + + + + + ++ + + + + + + + + + + + + + ++ + Il viaggio compiuto in Terra Santa dal 29 giugno al 6 luglio non è stato un viaggio. Il mio non è stato un partire. Non ho lasciato casa, per andare a cercare lontano una parte di me o per provare emozioni nuove o per conoscere ciò che non sapevo esistesse.
Proseguendo il cammino iniziato diciassette anni fa con «il don» – come affettuosamente don Antonio Mazzi viene chiamato dai suoi -, ho accettato l’invito da lui fatto a tutti gli Educatori questo inverno a Verona – in uno degli incontri di formazione – a recarsi con lui laggiù, perché aveva qualcosa da dirci: il 2009 è l’anno del venticinquesimo dalla fondazione di Exodus, ma è anche l’anno in cui egli compirà 80 anni.
In mente aveva – dopo il pellegrinaggio di un anno fa a Santiago de Compostela – la fraternità, cioè l’idea che si debba completare la mappa del nostro cammino di autoeducazione, trascorrendo insieme giornate memorabili per la loro spiritualità.
In mente aveva l’idea che dovessimo ripercorrere assieme a lui i momenti che hanno visto nascere una profezia. Non la mera religiosità né la fede, che non hanno bisogno di prove ulteriori né di ‘ricostituenti’ occasionali.
I modi di una nascita e di una crescita, del progressivo manifestarsi dei poteri divini sono stati scanditi ‘cronologicamente’ fino alla celebrazione del sacrificio di sé e della glorificazione.
La guida ha favorito con dolcezza e con competenza il lavoro faticoso della mente, che ha dovuto immaginare il cammino a piedi dalla Galilea fino a Gerusalemme per tre volte all’anno, in un territorio brullo e spesso arso dal sole, che poco aiuta a comprendere cosa accadde in quei luoghi: a Betlemme, ad esempio, non c’è traccia del passato glorioso di una città che un tempo era solo un villaggio di quattrocento pastori! Non abbiamo trovato facilmente le tracce della vita di Gesù: se fossimo andati da soli, non avremmo ‘visto’ nulla! La guida, tra l’altro, ha letto per noi i passi del Vangelo che aiutassero a comprendere la natura dei luoghi. Dei testi sacri la guida e il don ci hanno restituito il valore educativo e l’eroicità della testimonianza, ma soprattutto gli aspetti familiari, la crescita umana, il carattere escatologico del linguaggio, il suo valore di annuncio.
Ci è stato detto che non occorreva parlare, che gli effetti sulla nostra anima si sarebbero misurati con il tempo. Le emozioni provate sono state, infatti, violente. La commozione è stata trattenuta a stento, tutte le volte che siamo ritrovati – ogni giorno alle 11.00 – a partecipare a una nuova Messa, durante la quale, per otto volte il don ha parlato a noi, ai suoi Educatori, per tracciare sulla nostra anima il segno indelebile della sua parola.
A dispetto delle nostre differenti età, lo abbiamo sentito tutti come padre, affettuoso e burbero, preoccupato che quanto stavamo vivendo fosse vissuto nella maniera più profonda e vivificante: dovevamo riuscirne trasformati.
Ognuno di noi ha capito che occorre ritornare a Gerusalemme. Forse lo faremo ancora insieme, chissà! E’ certo, però, che laggiù è accaduto qualcosa anche in me, non so cosa, ma deve essersi trattato di cosa inaudita e bella, se sono qui interdetto a raccontare, senza sapere bene ancora cosa!
Ricostruiremo giorno per giorno gli otto giorni di cammino consumati con lui.
Laggiù ci siamo ritrovati facilmente. Un saldo legame ci porta ormai a riconoscerci senza fatica, tutte le volte che ci ritroviamo faccia a faccia. I semi dell’insegnamento del don stanno dando frutti. Il canto corale, la preghiera, l’abbraccio fraterno sono momenti che riviviamo ogni volta con emozione viva. Le nostre canzoni sono patrimonio noto a tutti. Il tempo provvederà a dire quanto saldo sia il legame che egli ha creato fra di noi.
*
CLAUDIO MAGRIS, L’infinito viaggiare, Mondadori 2005: pp.XVIII-XIX
7. Viaggiare è immorale, diceva Weininger viaggiando; è crudele, incalza Canetti. Immorale è la vanità della fuga, ben nota a Orazio che ammoniva a non cercare di eludere i dolori e gli affanni spronando il cavallo, perché la nera angoscia, dice il suo verso, siede in groppa dietro il cavaliere che spera di farle perdere le proprie tracce. L’io forte, secondo il filosofo viennese presto stroncato dalla convivenza con l’assoluto, deve restare a casa, guardare in faccia angoscia e disperazione senza volerne essere distratto o stordito, non distogliere lo sguardo dalla realtà e dal combattimento; la metafisica è residente, non cerca evasioni né vacanze. Forse talora l’io resta a casa e a viaggiare è un suo sembiante, un simulacro simile a quello di Elena che, secondo una delle versioni del mito, aveva seguito Paride a Troia, mentre la vera Elena sarebbe rimasta, per tutti i lunghi anni della guerra, altrove, in Egitto.
Weininger denunciava nel viaggio la tentazione dell’irresponsabilità; chi viaggia è spettatore, non è coinvolto a fondo nella realtà che attraversa, non è colpevole delle brutture, delle infamie e delle tragedie del paese in cui s’inoltra. Non ha fatto lui quelle leggi inique e non ha da rimproverarsi di non averle combattute; se il tetto di una notte crolla ed egli non ha proprio la disgrazia di restare sotto le macerie, non ha altro da fare che prendere la sua valigia e spostarsi un po’ più in là. In viaggio si sta bene perché, a parte qualche sciagura, terremoto o disastro aereo, non può veramente accaderci nulla; non si mette in gioco la propria vita.
Il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza. L’avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è là che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è là che ci si mette a rischio. La casa non è un idillio; è lo spazio dell’esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all’errore, alla sopraffazione e all’aridità, al naufragio. Per questo essa è il luogo centrale della vita, col suo bene e il suo male; il luogo della passione più forte, talora devastante – per la compagna e il compagno dei propri giorni, per i figli – e la passione coinvolge senza riguardi. Andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall’intensità domestica, adagiarsi in piacevoli pause pantofolaie, lasciarsi andare passivamente – immoralmente, secondo Weininger – al fluire delle cose.
*
Noi non abbiamo case da costruire né patrimoni da difendere. Siamo il partito delle radici. A noi interessa la casa che abitiamo già. Non siamo spaventati, come il nostro tempo, che teme lo straniero e il diverso e che si affanna a costruire difese contro i poveri e i derelitti. Siamo mani tese verso i nostri lontani. Il viaggio in cui siamo impegnati è dentro la nostra comune umanità. Non abbiamo tempo per le nostre paure. C’è un uomo che grida. E’ tempo di rispondere alle sue paure e di sedere alla stessa mensa con lui, per spezzare insieme lo stesso pane.