CAMMINARSI DENTRO (87): Al di qua.

Il tema più arduo: il silenzio del cuore. Non riserbo né rassegnato stupore né grazia… Non la paura che paralizza gli affetti né il sospetto… Si potrebbe dire: intransitabile utopia. Giusta attesa. Indugio. Spirito di litote: un quasi niente. Parlo dello sguardo raccolto di chi vede la possibilità dell’amore a poca distanza  da sé ma non parla! Perché non deve. L’intransitabile non è una strada ostruita né un indugio scrupoloso ed eccessivo. Non penso all’interdetto della donna d’altri o del legame indistruttibile stretto con altri. No. Quello che si custodisce nel cuore è segreto facile da custodire. Anche per anni.

Ci sono segreti che teniamo chiusi per sempre in noi.
E chi pensa che si debba dire tutto e che si abbia il diritto di sapere tutto è semplicemente sciocco, perché la vita non è l’oggetto sempre disponibile dei nostri capricci e delle nostre pretese.
E chi pensa che sincerità e veridicità e autenticità significhino dire immediatamente tutta la verità, costi quel che costi, ha in odio la vita, perché vuole che essa si dispieghi davanti a noi senza misteri e senza nulla di sacro da preservare dagli assalti dell’immortale volgarità umana.
Il recinto del pudore coincide con il recinto dell’anima, nel quale a nessuno è consentito ‘entrare’.
Chi dice di essere entrato nella vita di qualcun altro, di sapere tutto, di ‘possedere’ addirittura qualcuno è pazzo, stupido, disgraziato, cioè senza grazia. Sgraziato e disgraziato.

Parlo della misura con cui provvediamo alla manutenzione degli affetti, allorquando ci accingiamo a dire meno di quello che si potrebbe dire, per nostra scelta, magari rinunciando alle promesse delle illusioni, che immancabilmente ci faranno credere che la felicità sia a portata di mano. E magari sarà pure verosimile, ma credere che sia vero, che la cosa possa prendere la forma che vogliamo noi e che l’altro ci dirà quello che noi vogliamo sentirci dire in quel momento esatto della nostra vita… oh, questo è chiedere troppo!
Quando parlo di manutenzione mi riferisco alla cura che mettiamo nel non nominare nemmeno quello che ci fa soffrire. Magari è sottile sofferenza, non uno strazio insopportabile. Non esagerare il peso di una sofferenza è divino, io credo! Assistere muti allo spettacolo della vita, senza interferire, senza sollecitare risposte né lasciar trasparire gli affanni, se l’altro si allontana proprio nel momento in cui eravamo vicini a una verità che doveva stamparsi a lettere di fuoco nel cielo…
Come il protagonista de La manutenzione degli affetti di Antonio Pascale, che lascia uscire ogni sera sua moglie, senza chiedere mai dove vada e perché rientri tardi e perché lasci nel bagno il rossetto appoggiato sul mobiletto sporgente quasi a voler testimoniare che è stato consumato un rito per qualcuno che non siamo noi…
Manutenzione è il rispetto dei propri sentimenti che non hanno da essere spudorati, proclamati ad alta voce: egli non chiama tradimento i gesti della moglie.
Manutenzione è stare al di qua della verità e della realtà che si consuma su un’altra scena, lontano da noi: egli sta con i suoi figli, forse pago di ciò.
Manutenzione riuscita è il gesto remissivo con cui il protagonista si abbandona nel corridoio buio al richiamo di lei, che lo prende per mano e se lo porta via con sé: egli sosta al di qua dell’espressione compiuta di sé, favorendo l’esito felice.
Stupisce che questo esito sia dato dall’ennesimo contatto con lei, proprio con lei, con la donna che usciva (uscirà ancora?) la sera.
Risarcimento per la giusta attesa?
Perfetto compimento della vita, che si accorda per un po’ con le intenzioni, non importa quanto ‘serie’, facendo coincidere le ragioni dei cuori?

L’importante per noi è che tutto si sia ‘consumato’ nel silenzio del cuore: non di osservazione impotente si è trattato. No. Io parlo della scelta attenta, vigile, di un altro tempo, dell’istante eterno che solo ci dirà che tutto è in ordine intorno. Allora, noi siamo in armonia. Giunge fino a noi e ci tocca il cuore ciò che attendevamo nell’istante esatto in cui ci aspettavamo che arrivasse. O, ancora, ritorna a noi ciò che temevamo di aver perduto per sempre.


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