Da Il brusio degli angeli. Saggio etico-politico sui fondamenti del lavoro sociale (un piccolo saggio scritto nel 1994): VIII. Fare comunità
Nella relazione che si stabilisce con il ragazzo si definisce un orientamento: il cammino comune trova il suo Oriente nella individuazione di un ‘da farsi’, che è comunque l’instaurarsi di un ‘legame’ che aspira a negare i ‘vincoli’ precedenti.
Non si tratta solo di «mandare in Comunità» un ragazzo che ci chiede aiuto: per breve tempo, noi dovremo ‘legarlo’ a noi e poi ‘indurlo’ a partire, ad allontanarsi da noi. E lui lo farà volentieri, perché è ‘chiamato’ altrove.
Là dove andrà dovrà uscire dall’Ego sum, per essere Ego cum: dovrà «fare» Comunità. Dovrà imparare a pensare quel cum. Troverà nel luogo chiamato Comunità – che è il «da farsi» – ‘nemici’ ossia ‘stranieri’. Con essi dovrà non solo intrecciare un dialogo, ma trovare la dimensione del noi, dentro la quale soltanto si dà quella prossimità che non è l’indistinto dell’intersoggettività impersonale, ma sempre di nuovo un Terzo da dare, da riconoscere: la dimensione della Giustizia, che si fonda ponendo ogni distinto nella sua luce, esaminandolo con cura, riconoscendo all’altro ciò che gli spetta.
«Analizzare ogni grumo, amare la distinzione, riconoscere a ciascuno i suoi diritti, distinguendosi l’un l’altro – questa sarebbe giustizia. […] Per esercitare una tale giustizia in grande stile, un uomo deve poter sentire in se stesso la lotta tra distinti poteri, e non volere che nessuno tramonti, lasciare che la loro lotta continui» (CACCIARI).
Prima che il ragazzo vada a «fare» Comunità, noi dovremo prepararlo, non semplicemente ‘raccontandogli’ che cos’è la Comunità ‘data’, perché quest’ultima non esiste, non è in nessun ‘luogo’. Anch’essa è un ‘sito’, un ‘dove’: è dove si fa l’esperienza del cum. La Comunità deve essere ‘fondata’ sempre di nuovo. La Comunità esterna, quella nella quale il ragazzo entra, deve essere a sua volta ‘riconosciuta’, perché si apra la possibilità per il ragazzo di farla, cioè di fondarla dentro di sé.
Prima che il ragazzo ‘decida’, cioè scelga di ‘separarsi da…’, noi dovremo farlo uscire dal suo Ego sum e indicargli la realtà dell’Altro, a partire dall’altro che è dentro di lui.
Ma le ragioni che portano una persona a scegliere la Comunità, a separarsi dall’esperienza assoluta di piacere in cui è immersa, restano spesso sconosciute. Se essenzialmente il ragazzo parte perché non può più continuare come prima, quando resta occorre aiutarlo a cercarsi qui. Il fare che è qui in questione si ripropone, al di fuori del contesto protetto e avvolgente della Comunità, nello spazio aperto della società civile, dove è possibile sempre trovarsi e perdersi, perché tra la piccola comunità che è la famiglia – che non fa più contesto – e la società più ampia, con i suoi riti formali, non si dà comunità, se non nelle forme occasionali e provvisorie che sono consentite alle aggregazioni locali che operano ispirandosi a qualche valore di riferimento. Al di qua della Comunità c’è forse solo il mondo del volontariato, assieme alle altre forme di aggregazione autonoma e/o spontanea.
Al di qua della Comunità c’è il campo aperto delle infinite relazioni possibili. Dentro questa illimitata possibilità d’azione si situa la libertà di ciascuno di noi.
In questo ‘al di qua’, nel mancato riconoscimento del bisogno di comunità, occorre pure cercare la possibilità di andare verso la libertà.