Il cammino di vita di un Educatore è fatto di solitudini: da quella costitutiva della nostra esistenza, che cerco di indicare ai miei alunni, al momento opportuno, perché non arretrino di fronte alle prove più difficili della vita; alle tante esperienze di solitudine che l’azione educativa ci riserva, come i momenti di studio, le pause dell’anima a cui costringe l’ascolto attivo dell’allievo quando cerchiamo soluzioni ai suoi problemi e non ne troviamo, la ricerca di spazi educativi, di ambienti, metodi, principi, temi da trattare, parole…
Definisco quella della solitudine come la prova più difficile della vit,a perché ne facciamo esperienza forte nei momenti in cui ci colpisce una malattia o un lutto o un evento non felice: allora, come direbbe il poeta Edgar Lee Masters, Il mio dolore non ha amici. Anche in mezzo alla folla, anche se accanto a noi c’è la persona a noi più cara, siamo soli con la nostra anima. E non si tratta solo della necessità di scegliere, di fare scelte che solo noi possiamo fare. Non è solo il momento della responsabilità, dello sgorgare spontaneo da noi di pensieri, volizioni, affetti che dalla decisione – dallo staccarsi dalle rive sicure dell’inerzia – ci spingono all’azione. Non è solo il dolore dell’azione. La solitudine degli Educatori risiede nella specificità e unicità della relazione educativa che ognuno ha da costruire con i propri allievi, presi uno per uno. E’ il fatto di sapere che domani in classe dovrò andare io, che dovrò andarci – se mi sottraessi, accampando scuse: mal di schiena, febbre…, mi sentirei inerte e inutile su quelle rive da cui ogni giorno debbo staccarmi, per affrontare il largo – perché mi aspettano, anche se non mi aspettano. Essi sanno che io ci sarò. Che ‘salirò’ sulla cattedra, che farò i gesti di tutti i giorni, dalla compilazione del registro di classe all’annotazione sulla mia agenda degli avvenimenti del giorno. Che mi alzerò in piedi e andrò alla lavagna, a scrivere le parole-tema del giorno. Perché una lezione che si rispetti deve avere un tema. Le parole o la suggestione prescelta costituiranno il pretesto per prendere appunti: i ragazzi sanno che tutto quello che scrivo alla lavagna deve finire sul quaderno personale, nell’area riservata agli appunti, che successivamente dovranno essere rielaborati a casa e trasformati in testo compiuto. Scegliere le parole in cui ‘riassumere’ il tema della lezione è faticoso.
Inizia la lezione: può trattarsi anche delle funzioni dell’aggettivo nella frase latina, ma la sua trattazione non potrà essere impersonale e astratta: io dovrò dire perché abbia scelto di parlare proprio di quell’argomento in un freddo giorno d’inverno. Dire le proprie ragioni è faticoso.
In questo ultimo anno della mia attività di insegnante – il trentacinquesimo – mi sta accadendo la cosa più strana: dopo aver programmato, anticipato ogni mossa della ragione, senza lasciare nulla all’improvvisazione per trentacinque anni, un po’ forse per stanchezza oggi, mi sono accorto che tendo solo ad improvvisare, mi sciolgo in lunghe lezioni non preparate, che sono però le più belle, perché riesco a dire quello che si annida nel fondo dell’anima, senza timori, senza astratte mediazioni culturali, ma con passione e slancio, punteggiando ogni discorso con riferimenti alla mia vita privata, alle mie emozioni, agli affetti, alle relazioni intrattenute con i miei familiari, con quelli che non ci sono più, ma soprattutto con i più giovani, con l’ultimo arrivato, un nipotino di un anno appena.
Ebbene, quando mi ritrovo davanti a loro che ascoltano in silenzio, spesso tesi, emozionati, io sono solo: io non posso perdermi; debbo trovare le parole per dire compiutamente i pensieri e le cose. Debbo raccogliere tutte le forze dell’anima e sorridere, gesticolare, muovermi sotto i loro occhi indagatori, appuntare lo sguardo su tutte le zone dell’aula, cercando persona per persona un consenso che non arriva. Debbo uscire dalla mia sessantennale timidezza e sforzarmi di non arrossire, di non far tremare la voce, di fare uscire la voce sicura, forte, appassionata, convinta, perché le cose siano non solo chiare ma soprattutto vere; perché la mediazione culturale si consumi nel segno dell’onestà intellettuale, in cui dovrà entrare qualche seme della mia personale ricerca, perché non tutto sia già detto e già scritto. Debbo esibire i miei pensieri, le mie convinzioni, riducendole a convinzioni che si perdono tra altre convinzioni, perché prevalga la scelta comune, quello che ci unisce e che ci consente ogni giorno di nuovo di dire che ci sono ragioni comuni per procedere ancora. E questo è faticoso.
E quando mi ritrovo a farlo, sento che sono solo. Vorrei che qualcuno mi abbracciasse e che piangesse finalmente assieme a me e che mi dicesse che non sono solo. Non perché io sia vecchio e stanco, ma per il fatto che amare le persone sbagliate per tanti anni – anche i miei alunni lo sono – , come ha detto don Antonio a Costagrande, ci porta a sentire che tutto quell’amore donato meriterebbe forse non una ricompensa – ché quella l’abbiamo già avuta – ma altro amore: che qualcuno si prendesse cura di noi, che ci aiutasse ad uscire dalle nostre solitudini, che ci sorridesse, che non ci lasciasse andare soli a casa, che non ci lasciasse ancora soli per ore ed ore con i nostri pensieri, soli con il compito educativo, come se noi avessimo solo un giardino da curare e non fossimo chiamati fuori dal caldo sole invernale, per una passeggiata magari, per conversare insieme amabilmente ogni tanto sui germogli che spuntano in anticipo e sul prezzo dell’insalata che useremo per imbandire le nostre tavole.
22 febbraio 2008