Camminarsi dentro (0): Mia madre è morta

madre

Mia madre è morta

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L’amore fatto di poche cose.

I sentimenti indistruttibili di un tempo.

Il pudore spinto fino all’inverosimile.

La parola espressa solo quando tutto era in pace intorno.

Il maternale amore di un tempo. Ottuso e cieco mai.

La mitezza di cuore.

La capacità di soffrire in silenzio, senza chiedere aiuto, “per non disturbare”.

La fede adulta che non crolla mai.

L’attaccamento alle piccole cose, da conservare tutte.

L’ingenuità di fanciulla mai morta, nonostante fascismo guerra fame morte dolore umiliazioni.

La capacità di dire sì e no con la stessa facilità con cui si può uscire dalla vita “senza disturbare troppo”.

2 settembre 2007

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9 settembre 2007

A sette giorni dalla morte di mia madre, mi sono ritrovato con i miei fratelli nella sua a casa a decidere cosa fare degli oggetti da lei lasciati e della casa stessa.

Il pensiero maggiore va alle cose, agli infiniti oggetti da lei conservati con cura: non gettava via niente.

Mia figlia Sara ci parlava il giorno della sua morte di una piccola busta sulla quale aveva scritto: perle di Sara. A distanza di anni, quando si ritrovò sola con lei, mia figlia volle vedere cosa contenesse quella bustina: mia madre rovesciò il contenuto e vennero fuori tutte le perline delle collane con le quali Sara giocava da bambina.

Io conservo un vasetto di vetro fragilissimo che risale a più di cinquant’anni fa.Nella nostra casa venne una Madonnina che passava la settimana successiva ad un’altra casa nei mesi invernali, fino alla fine di maggio. Vicino ad essa si raccoglievano in preghiera per sette giorni le famiglie del quartiere.

Intorno a quella Madonna mia madre dispose quattro vasetti di vetro per i fiori, uno per ogni figlio.

Di quei vasetti nessuno parlò più. Quando ci sposammo, uno dopo l’altro, lei regalò ad ognuno un vasetto.

Di lei non conservo una cosa più preziosa.

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23 settembre 2007

UNA MORTE DOLCISSIMA

Non di ossimoro si trattò, quando morì mio padre, né quando recentemente è accaduto a mia madre. Una mia vecchia amica diceva di sua madre che se ne era andata. E questo può andar bene. Il giorno della morte di Roland Barthes scrissi sul mio Diario delle posizioni “Roland Barthes è morto”. Pensai che scrivere “E’ morto Roland Barthes” avrebbe significato, piuttosto, che la morte se lo era portato via, che essa aveva vinto sul grado zero, sulla stanza chiara e tutto il resto. In realtà, era accaduto il contrario: Barthes era morto. Agamben ha scritto che gli animali cessano di vivere, senza sapere in vita che un giorno accadrà. Solo gli uomini muoiono: essi hanno la facoltà di morire. D’altra parte, se impariamo a distinguere tra la morte e il morire; se ci dedicheremo al pensiero del nostro morire; se quello che ci viene sottratto ogni giorno – il tempo dell’esistenza – è presente nella nostra memoria viva come patrimonio da custodire, da strappare alla dimenticanza, l’ora che non ha sorelle non ci coglierà impazienti e ansiosi di fare ancora. Del timore o addirittura del terrore che cosa dire se non che si tratta di sentimenti che assediano chi non sa di sé? chi crede di esser vivo e si stupisce della vita che se ne va a poco a poco? Cosa potremo insegnare a chi si ostina a vivere, senza accettare di esistere un’esistenza sobria e paga del buon vivere? Se non abbiamo appreso che non manchiamo di nulla, che svegliarsi e addormentarsi di nuovo è già aver esistito, che occorre ringraziare per le ‘piccole cose’, che riempire il vuoto dell’esistenza è il compito dell’esistenza che esiste, dove troveremo il coraggio di alzarci al mattino, di uscire di casa e di andare incontro al mondo con il suo carico di bene e di male? Riusciremo a vedere da lontano un sorriso e i palpiti delle esistenze altre, che stanno lì a testimoniare semplicemente che la vita continua e che c’è posto anche per noi?

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Dobbiamo abbandonarci ancora, se non lo abbiamo fatto già. Si può piangere sommessamente. Di nascosto. Lasciarsi invadere dall’onda dei ricordi. E forse anche piangere disperatamente. Per un po’. Non opporre resistenza allo scioglimento.

Oggi sono tornato con mia figlia nella casa di mia madre. Tante mani hanno raccolto oggetti di tutte le grandezze. Appeso al muro ho visto il suo Rosario. Lo usavamo assieme a lei da bambini vicino al camino acceso. Quante volte le sue mani lo hanno fatto scorrere tra le dita, invocando grazie per noi! Io non potevo fare a meno di pensare che per qualche via misteriosa le sue preghiere sarebbero state ascoltate. Ne salivano al cielo tante, ma le sue non dovevano passare inosservate. Ci metteva la sua dolcezza infinita. Non sarebbero accaduti miracoli. Questo no. Semplicemente, qualcuno avrebbe gradito il suono della sua voce. Io sapevo che quelle preghiere servivano a noi. Dovevano conciliarci con la vita e darci speranza. L’apertura al mondo che serve al mattino per affrontare l’esterno. Lei non diceva mai che pregava per ottenere aiuti per noi. Pregava soltanto. Apriva la sua anima al cielo. Quando guardava in alto io sentivo che tutti noi salivamo con lei. Non abbiamo mai smesso di salire.

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16 dicembre

A 100 giorni circa dalla morte di mia madre mi sono reso conto del silenzio in cui mi sono chiuso. O forse, sarebbe più giusto dire: del silenzio in cui mi sono avvolto; del silenzio che è calato nella mia vita; del silenzio stupefatto e commosso che si è impadronito dei giorni, togliendo vigore alla capacità di scrittura. Tutti sanno che ci sono cose che comprendiamo solo dopo che si sono consumate, che il significato di una persona talvolta ci accompagna inconsapevoli, che solo un’emozione ha il potere di cambiarci la vita – questo pensiero richiede un supplemento di riflessione e molti chiarimenti personali -, che sciogliere i grumi di affetto che impediscono di parlare e infine di dare un nome alle cose è sì bisogno di chiarezza, ma questo bisogno è accompagnato dal timore di dissolvere l’oggetto, di far esistere ciò che è consegnato a un indecidibile. Le cose sacre restano lì. Non dette. Uno scrittore francese anni fa scriveva “sul sacro” sulla rivista il verri, aprendo così il saggio-scrittura: «Il sacro era il cappello di mio padre…». Dunque, come ben sappiamo, il significato che assumono le cose (e le persone a cui appartengono) può assurgere alla dimensione del sacro, addirittura. Il sacro di cui parliamo è l’aura misteriosa delle cose, per cui non osiamo avvicinarci, toccarle. Nominarle. Già dire: «il cappello di mio padre» equivale a consegnare allo sguardo indiscreto del pubblico le cose più vere della nostra vita. Dunque, non vogliamo parlare di tutto. Salvo tornare a parlare, a scopo di liberazione. O per timore che vada perduto il senso del vissuto, l’aura di cui parlavamo, che rischia di affondare nell’oblio assieme a tutto il resto. Quello che volevo salvare era il grumo di dolore che mi faceva sentire ancora il profumo di mia madre, il rumore dei suoi passi, la sua voce calda e accorata. La foto di lei appena morta mi aiuta ancora un po’, ma infine anche lei morrà. Di lei resterà solo il tenue ricordo delle cose dolci che torno ad assaporare e che mi riportano a lei. La casa non esiste più. Dispersi gli oggetti tra le case dei figli. Vuote le stanze. Presto venduta la stessa casa in cui era vissuta per 44 anni. Dove cercarla poi? Resta la mia anima, con la traccia della sua esistenza. Mi resta solo quello che sono per merito suo. Ma a chi chiedere di proseguire l’immane lavoro di produzione della memoria? Come conservare ciò che è già solo esile traccia? Sigmund ci ha insegnato che anche il lutto più grande si estingue. Con esso va via ogni cosa più cara. Restiamo solo noi, qui. Con qualcosa di sacro in meno.

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