CAMMINARSI DENTRO (109): Il brusio degli angeli. Saggio etico-politico sui fondamenti del lavoro sociale.

*

Il brusio degli angeli

Saggio etico-politico
sui fondamenti del lavoro sociale

 

È o vorrebbe essere da un capo all’altro un piccolo tentativo di dissidenza dal gioco delle forze, «una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile» (Cristina Campo)

(Seconda di copertina)

Il titolo del saggio è ripreso dall’opera di Peter L. BERGER, A Rumor of Angels. Modern Society and the Rediscovery of the Supernatural, Garden City, N.Y., 1969; trad. it., Il brusio degli angeli, Bologna, 1970. Esponente della sociologia fenomenologica e autore di importanti studi di teologia della secolarizzazione (Le piramidi del sacrificio; La realtà come costruzione sociale), Berger è studioso della «Rivoluzione/Progresso come secolarizzazione della onto-teo-logica».

L’idea a cui rimanda il titolo è quella di una realtà sociale in cui la comunicazione tra individui non è posta più al riparo delle grandi certezze metafisiche del passato o garantita dalle ideologie politiche e religiose. Ogni individuo è solo davanti all’altro. Non più sostenuto da un patrimonio di conoscenze utili per l’azione, il singolo è impegnato a costruire la mappa del territorio che ha davanti a sé e nel quale intende procedere.

L’immagine dell’angelo è presa in prestito da Wallace Stevens, che diventa l’angelo necessario in Massimo Cacciari e poi codice dell’anima in James Hillman. Figura intermedia tra terra e cielo, costituisce il passaggio obbligato per chi si ponga il problema dell’accesso all’invisibile e il problema del rapporto tra visibile e invisibile.

Il brusio degli angeli dovrebbe dare l’idea del parlare sommesso, ma soprattutto dell’espressione di sé di fronte alla Realtà: allude alla capacità di comunicare con l’esperienza altrui. E’ l’immagine difficile dell’ethos del volontario. E’ il suo daimon che parla. La necessità di questo Angelo, la necessità di essere angelo a qualcuno coincide con l’esigenza di dare senso a ciò che vi è per noi. Si tratta solo di un ‘brusio’, perché è un parlare, quello del Volontario, che si produce «nell’impresa ricorrente di conversione di un mondo non intrinsecamente nostro in una realtà con altri durevolmente condivisa».

0. In cammino verso il linguaggio

In questo paragrafo liminare si parla di esseri intermedi, collocati dalla tradizione tra terra e cielo. Simbolo e cerniera tra i due mondi, gli angeli li riassumono in sé, perché sono messaggeri del ‘mondo delle idee’ presso gli uomini; da entità teologiche si sono fatti nell’arte, nella letteratura e nel pensiero moderni intermediari, protettori, custodi delle cose nascoste, dei misteri, di tutto ciò che è invisibile. Ci vengono in aiuto nella nostra riflessione, in quanto assumono la veste dell’attività rappresentativa della mente; sono emblemi delle ‘invenzioni’ della mente.

La necessità dell’angelo deriva dal fatto che l’esperienza umana si è fatta invisibile. Essa non è più immediatamente leggibile, se mai lo è stato. Tra esperienza e comportamento esiste uno scarto, una cesura difficile da colmare. Il raccordo tra l’una e l’altro è il compito di ogni politica dell’e-sperienza che voglia restituire un resoconto credibile della condizione umana del nostro tempo e presentarsi come strumento di interpretazione della realtà che sia utile per l’azione. La necessità della ‘traduzione’ e dell’‘interpreta-zione’ della realtà dell’altro è la migliore riprova dell’invisibilità dell’esperienza.

L’esperienza del Volontario è il costituirsi di una relazione etica in cui egli ha da svolgere un ruolo che riesce a svolgere solo se è consapevole della propria natura, se l’accetta, se sa renderla visibile – se cioè è in grado di fare esperienza con l’altro -, se è in grado di mettere in relazione, di far parlare il suo daimon con quello dell’altro. Il daimon è l’invisibile di cui parlavamo.

Gli angeli a cui allude il titolo del saggio sono il mio daimon e quello dell’altro che è di fronte a me. Chiamare ‘angelo’ il proprio daimon significa assegnargli il compito di rendere possibile la comunicazione con la parte invisibile dell’altro, con la sua esperienza. (Chiamare angelo il daimon, infatti, non è appropriato, per il fatto che l’Angelo è la capacità della mente di emanciparsi dai vincoli della necessità, incarnati dal daimon personale. Questa operazione, dunque, si qualifica come ‘assunzione’ del daimon a forza etica costruttiva, come veicolo del senso, primum indispensabile nel circolo della comunicazione). Occorre ‘tradurre’ e ‘interpretare’- nel comunicare, dentro la relazione. Il contatto tra le esperienze avviene in una sorta di terra di nessuno da creare ogni volta di nuovo. Perché sia possibile la comunicazione occorre uno ‘spazio linguistico’ comune. La costruzione di questo spazio coincide con il progressivo strutturarsi della relazione etica. Alla base di questa ‘costruzione’ c’è la volontà del singolo. Essa è origine e risultato.

«Ogni parlante è filosofo morale. E la verità è un’assemblea di parlanti» (Karl Otto Apel). Nel flusso della comunicazione, tuttavia, non si dà tutta la verità. Per questo, la tensione etica che ci spinge verso l’altro è scontro con i limiti del linguaggio, conato perenne destinato a ‘sfondare’ l’ordine del discorso per attingere il fondo di indicibile che è proprio dell’esperienza. Dentro questo paradosso del linguaggio, che è paradosso dell’esperienza – per cui essa si dà, ma non si mostra se non nell’evidenza sfuggente di una realtà che si ritrae o che ci si manifesta per enigmi – a noi non resta che avventurarci nel territorio accidentato dell’esperienza altrui, tentando con tutti i sensi di cui disponiamo di definire i lati del mondo a noi sconosciuto. Così facendo, noi parliamo, e parlando cerchiamo l’altro. Cerchiamo il suo senso e aspettiamo che dia senso al nostro parlare, che il suo parlare ‘corrisponda’ al nostro parlare.

Se paragonato al canto degli Angeli di fronte all’Altissimo, questo parlare è un sommesso bisbiglio, un impercettibile brusio, quasi un’infrazione alla regola del cielo che vuole l’Angelo ‘perso’ nella contemplazione del suo Creatore. Nella realtà mondana, essere angelo a qualcuno significa essere interessati all’esperienza altrui, all’irriducibilità di quell’esperienza, perché si tratta di farla sussistere nella sua realtà ‘biografica’ e ‘temporale’, ‘animica’, presso di noi.

La contestualità delle due esperienze nella ‘prossimità della distanza’ è comunicare. Ma ciò che viene messo in comunicazione è la parte nascosta di sé, e non siamo di fronte a un Giudice che stia lì a regolare e a garantire il flusso della comunicazione. Siamo soli. Il brusio degli angeli è questa comunicazione tra invisibilia.

La scienza delle cose invisibili è patrimonio di molti uomini ed ognuno la costituisce per sé, intrecciando relazioni significative con coloro che riconosce come propri simili. Essa si costruisce giorno dopo giorno, a brano a brano, con la gioia e col dolore, che sono gli strumenti con i quali si misurano la prossimità e la distanza, il grado di riconoscimento di cui ci è dato godere, l’altezza che abbiamo raggiunto, il diritto di esistere. Un uomo negato, infatti, è un bisogno di corrispondere e di vedersi corrisposti frustrato. Se le cose che abbiamo visto ci aiutano a vedere sempre di nuovo, e il rivedere è adagiarsi nel tepore del consueto, del familiare, dell’accogliente, in sostanza è davanti allo sguardo dell’altro che si compie la nostra esistenza.

Se il coraggio dell’inizio, se il coraggio come virtù dell’inizio ci consente di ‘avviare’ la nostra esistenza, è solo l’altro che permette l’esplicarsi della virtù della perseveranza e dunque la possibilità del ‘compimento’, della realizzazione.

Essere angelo a qualcuno è cosa difficile, perché siamo protesi piuttosto verso l’angelo che deve soccorrere noi. Solo occhi di seconda vista sanno vedere l’altro che è in noi, come l’altro che è fuori di noi. Dentro l’oscillazione tra questo altro e quello si dà visione.

L’essere fissato dalla scienza della natura è qui piuttosto forma, espressione vivente di un darsi e di un ritrarsi costante tra i quali è necessario prevedere ascolto ed interpretazione. Il risultato della conoscenza non è un concetto, ma il dispiegarsi rinnovato di una biografia, il farsi biografia di una vita che si era ridotta ad oggetto delle ‘scienze del corpo’ e a ‘cartella clinica’.

Ma nella vita di un uomo e della vita di un uomo non c’è alcun segreto da carpire. Si tratta, piuttosto, di vivere con. Solo a queste condizioni sarà possibile dare senso, costruire il significato, tracciare il disegno di una biografia. Gli uomini hanno solo vite da vivere, posti da occupare, possessi da rivendicare. Se imparassero a consistere qui e ora dentro i provvisori confini che ad ognuno è dato abitare, forse riuscirebbero a cogliere nel caduco la scintilla di eterno che pretendono dall’altro.

La linea sottile che divide due esistenze è anche quello che le unisce. Tutto dipende dall’uso che facciamo del segno che fisserà i confini e le rispettive identità. Costruire relazioni significative è il compito dell’intera esistenza di ognuno di noi. Fare esperienza poi, cioè rendere evidente la propria relazione con le cose del mondo e con le persone, è volere che file di continuità si stabiliscano; è, ancora, dare senso, l’espressione più propria dell’umano.

Esperienza e storia sono i frutti della presenza dell’uomo. Le sue istituzioni e i modi del suo consistere, la consistenza del suo radicamento e la forza della sua visione conferiscono valore ai prodotti del suo fare.

Il nucleo nascosto del suo vivere è la matrice di ogni cosa buona e cattiva. Dentro ogni individuo si nasconde un daimon, un genius, «angelo», «anima», «paradigma», «immagine», «destino», «gemello interiore», «compagno del-l’esistenza», «custode», «vocazione del cuore». A seconda del significato che nelle diverse culture è stato assegnato al daimon, il destino personale è risultato più o meno determinante. Abitante di una «regione mediana» (metaxu), il daimon ci aiuta a spiegare, ad esempio, il carattere nello stesso tempo celestiale e terreno dell’amore.

Affermare che il nostro ethos è il nostro daimon è come affermare che ‘decidiamo’ la nostra natura. Ma decidere significa qui solo scegliere, introdurre elementi di dinamismo etico nel flusso della vita, è il farsi esistenza della vita. Il marchio individuale di una vita, il carattere personale di una vita è esistenza. Esistere è progettare, sollevarsi al sopra dell’orizzonte della pura quotidianità, per cogliere i sensi nascosti della realtà che ci circonda e del nostro paesaggio interiore. Realizzare la propria natura, esplicarsi e manifestarsi al mondo non significa, però, solo protendersi nell’ek-stasis mondana: si tratta di accettare quello che si è, essere se stessi, divenire se stessi. Con questo bagaglio di libertà e necessità andiamo incontro all’altro.

Le voci del mondo si lasciano percepire, tuttavia, solo da chi è disposto a custodirle nel proprio cuore, comprendendole come «il perfettamente distinto», come quell’unico ed irriducibile che costituisce la vita di ogni uomo. Mantenere intatto ogni ‘grumo’ delle esistenze con le quali entriamo in relazione equivale ad accogliere: è questa capacità di percepire e far sussistere dentro di sé i contrasti e l’inaccettabile contraddittorietà del vivere altrui la vera giustizia.

Il tratto distintivo dell’alterità è l’invisibile del daimon personale. La relazione è tra invisibilia. Il contatto che si stabilisce tra le persone coinvolge le dimensioni profonde dell’essere, piaccia o no. La migliore conoscenza di sé che l’Operatore ha da esibire è alla base dell’empatia, cioè della regolazione della distanza. Quest’ultima istituisce le coordinate spaziali e temporali dell’esperienza. L’ordine del discorso fonda e dà senso all’esperienza, amplifica le voci dell’altro, disegna volti e assegna nomi. A sua volta, parla, sommessamente. Quel brusio è il ritmo proprio dell’esistente, del nostro come dell’altro. Essere qui è bello, se si è in ascolto.

I. Tra società civile e Stato

[ In questo paragrafo si definisce la collocazione politica dell’Associazione. ]

L’AZIONE DI VOLONTARIATO si situa strategicamente in un ambito che è definito sociale o della società civile, che si contrappone concettualmente alla società politica o allo Stato, come luoghi del pubblico, rispetto al quale il Volontariato si qualifica come espressione del privato. Se la realtà della società civile è diversa e distinta da quella dello Stato concepito come ordinamento, qui non si intende l’azione nel ‘sociale’ come un’azione da contrapporre a quella dello Stato.

Lo sforzo di costruzione di un’identità da parte dei gruppi di volontariato laico nasce dal bisogno di agire politicamente, cioè nell’interesse della società organizzata, senza che questo significhi prima o poi riassorbimento nell’area del volontariato cattolico o resa all’area politica al governo della città, della provincia o della regione in cui si opera. Il volontariato laico collabora con tutte le amministrazioni locali e rispetta le leggi dello Stato, da qualunque governo siano state promulgate.

Il Volontariato più autentico è dislocato ormai su posizioni che mirano all’integrazione tra ‘pubblico’ e ‘privato’, in quanto la battaglia contro la droga e contro la tossicodipendenza non può essere combattuta e vinta da un solo soggetto: le posizioni antistataliste sono destinate a restare prigioniere del pregiudizio ideologico e non fanno guadagnare posizioni al ‘fronte’ impegnato in questa battaglia.

Il Volontariato per sua natura non può diventare Stato, cioè parte di esso, ma nemmeno anarchicamente «ritirarsi» dall’agone politico, ignorando le politiche sociali che si praticano, rinunciando a farsene promotore, senza suggerire mete ulteriori all’azione sociale. Esso ha da suggerire addirittura qualche soluzione generale, contro le inerzie del tempo. Di fronte alle grandi emergenze etiche e in presenza di una crisi delle figure di riferimento nel campo dell’educazione, occorre dire da che cosa bisogna ripartire sempre di nuovo per dare risposte ai bisogni emergenti.

II. Sito educativo

[ In questo paragrafo l’Associazione viene definita come un ente non territoriale, in quanto la sua ‘residenza’ non conta più da quando è stato avviato il Dipartimento 3D. Quest’ultimo, infatti, creerà la rete dei Servizi pubblici e privati. Dentro la rete ognuno dei soggetti aderenti può contare con un ‘invio’ sui servizi che mette a disposizione ogni altro Ente. Allora ogni Ente è come un ‘sito’ di una rete telematica. Il collegamento, la collaborazione e il riconoscimento delle metodologie usate fa cadere la questione dei ‘bacini d’utenza’.

Il sito è definito educativo, perché l’azione dell’Associazione deve essere definita subito come tale. ‘Educare’ significa far venire fuori da una persona il meglio. In questo senso l’azione è anche etica, mira cioè ad instaurare un insieme di comportamenti finalizzati ad un valore. ]

Il modello della RETE e l’APPROCCIO MULTIMODALE al problema della tossicodipendenza suggeriscono ai soggetti pubblici e privati lo sforzo di definizione del campo in cui operano come ambito nel quale la distinzione pubblico-privato vale più come fatto descrittivo che non prescrittivo: le persone non ‘si salvano’ da una parte o dall’altra.

La scelta del Servizio da parte degli utenti risponde spesso a ragioni private e personali e rientra nella catena dei tentativi che essi fanno quando incominciano ad abbandonare la tendenza all’‘autoterapia’.

I Gruppi di volontari operano nel contesto integrato SER.T. – Comunità – Servizi socio-sanitari (Servizi sociali dei comuni, Presidi sanitari) – Associazionismo – Istituzioni, come CENTRI DI ASCOLTO che interpretano i bisogni degli utenti, come «filtro» per l’ORIENTAMENTO degli utenti verso gli altri destinatari dell’azione di recupero, come AGENZIA EDUCATIVA impegnata, accanto alla famiglia e alla scuola nelle realtà territoriali, a favorire e a guidare la crescita dei giovani e degli adulti.

Il «luogo» del Volontariato laico non è definito dalla Sede che lo ospita o dalla Città in cui «risiede», ma dal riconoscimento di cui gode e che solo rende possibile la sua azione e l’esplicarsi del suo ethos.

III. L’ethos del Sapere del Volontario è da ricercare
in un’Etica del riconoscimento e del corrispondere

[ Non si dà più un’Etica con la Legge, cioè un’etica generale, universale, valida per tutti. Eppure, la cerchiamo, o facciamo riferimento a quelle di una volta, come se fossero ancora operanti. Si tratta di capire che lo stesso cristianesimo ha contribuito a sradicare l’ethos, a togliere quelle radici nazionali che sono costitutive della sua essenza, per sostituirle con una considerazione universale dell’uomo. Per comprendere questo paragrafo, leggere: M. CACCIARI, Ethos e metropoli; M.CACCIARI, Etica del Sapere; AXEL HONNETH, Etica del riconoscimento; JEAN-LUC NANCY, Etica del corrispondere ]

I principi ispiratori dell’azione di volontariato sono fissati a partire dal riconoscimento del tossicodipendente come CITTADINO detentore di diritti non revocabili nemmeno nella fase acuta della dipendenza; come PERSONA dotata di possibilità di vita sicuramente limitate dalla condizione attuale, ma non compromesse irrimediabilmente; come INDIVIDUO distinto e diverso, con una personalità incompiuta, ma con tratti distintivi che non consentono di ridurlo a categorie, come ad esempio quella degli eroinomani; come SINGOLO, cioè come espressione viva e parte significativa del sistema familiare, in cui andranno lette tutte le vicissitudini della personalità individuale.

Utilizzando un’immagine pittoresca, ma efficace per la sua chiarezza, potremmo dire che il Volontariato confina a Nord con la Comunità; a Sud con la ‘strada’, con la famiglia, con gli utenti; ad Ovest con tutti i Presidi socio-sanitari (SER.T., D.S.M., Consultori familiari); ad Est con le Istituzioni politiche (Servizi sociali dei Comuni e Assessorati ai Servizi sociali).

Il ‘confine’ a cui allude la mappa è il termine, il luogo e il senso della relazione con l’altro da sé per il Volontariato laico, che ricerca nel rapporto di collaborazione con tutti gli altri Operatori – politici, istituzionali, sociali e sanitari – il riconoscimento di cui il suo lavoro ha bisogno quotidianamente. Se fosse, infatti, esperienza irrelata, in sé sufficiente, troverebbe solo in se stessa la sua ragion d’essere. Tutto quello che precede, invece, suggerisce che il senso dell’azione risiede interamente nella relazione con l’altro, sia esso l’utente o l’operatore impegnato sul terreno del cambiamento dell’esistente. Definire i ‘confini’ dell’azione di volontariato, dunque, è utile a meglio definire l’ambito entro il quale essa si situa, la fonte della sua legittimità sociale, la sua moralità, la radice dell’ethos del suo sapere.

IV. La sorgente dell’ethos del Sapere del Volontario va cercata dentro la relazione

[ In questo paragrafo troverete riferimenti alla Scheda Progetto e destino, alla Scheda su Empatia e kairós, alle Schede sull’Educazione dei sentimenti e delle emozioni.

Dentro la coppia progetto-destino si gioca tutto il lavoro ‘terapeutico’, in quanto si tratta di riconoscere quanto c’è di immutabile nella storia della persona e quanto si può modificare: compito dell’Operatore è quello di indicare il progetto.

L’empatia è il metodo degli psichiatri. Definisce non l’identificazione, ma la capacità di riconoscere e di dare un nome ai sentimenti dell’altro, senza identificarsi con lui.

Per quanto riguarda l’Educazione delle emozioni e dei sentimenti, possiamo affermare senza dubbi che in tutto il mondo ormai si viaggia in questa direzione: la prevenzione e l’intervento si faranno così. ]

Lo sguardo ‘discreto’ dell’Operatore, insomma, assume tutta intera l’umanità di chi gli sta di fronte, per instaurare un rapporto significativo con l’utente che si avvicina al Servizio, perché la RELAZIONE umana che si stabilisce sia fondata sul riconoscimento reciproco e non sia pregiudicata la possibilità di stabilire contratti e alleanze.

Quello che ci muove quotidianamente, spingendoci ad uscire di casa per occuparci del disagio dei ragazzi è un sentimento di ribellione e di rabbia di fronte alla condizione disastrosa di tanti giovani, sentimento che si trasforma in BISOGNO DI GIUSTIZIA e in una modalità combattiva a favore della pluralità sociale («Le persone vanno rispettate, opinioni e comportamenti no», F. SAVATER), perché tutti i nostri concittadini imparino a sopportare pacificamente quello che disapprovano nei loro simili, soprattutto nei tossicodipendenti. Solo da un ATTIVO SPIRITO DI TOLLERANZA potrà nascere un generale risveglio morale e un diverso atteggiamento solidale nei confronti di chi è nell’errore. «E’ importante che sia chiaro che vivere in una democrazia oggi (e ancor più in futuro) equivale a coesistere con quello che consideriamo sbagliato e meschino, con quello che ci ripugna o che non riusciamo a comprendere. Vivere in democrazia significa sperimentare l’inquietudine; trovare nella comunità una generica protezione ma ben poca consolazione alle insicurezze private» (F. SAVATER).

Quello che ci muove quotidianamente, spingendoci ad uscire di casa per occuparci del disagio dei ragazzi è il desiderio di entrare dentro il loro DESTINO (la situazione familiare, le condizioni di nascita, il temperamento e il carattere), per introdurre elementi di PROGETTO laddove sembra essersi interrotta la CAPACITÀ DI AUTOSOSTENTAMENTO della persona, dove l’ostinazione contro le proprie radici e la propria storia si traduce in fuga dalla libertà e dal dolore, dove risulta appannata la capacità di comunicare significativamente con le persone vicine.

L’esperienza degli ultimi due anni di volontariato si è arricchita per noi di una modalità di intervento prevalentemente formativa che si sostanzia di interventi sulla famiglia, perché l’azione degli adulti riguadagni nel tempo la fisionomia educativa perduta.

Il DONO di sé, DEL proprio TEMPO di vita è il prerequisito essenziale per ogni azione volta a introdurre elementi di dinamismo psicologico ed etico nella vita altrui. La negazione della comunità come della comunicazione è l’assolutizza-zione dell’individuo, è la pretesa di fondare sul soddisfacimento totale ed incondizionato dei bisogni e dei diritti dell’individuo forme accettabili ed autentiche della vita di relazione.

Compito del volontariato è anche quello di indicare orizzonti metaindividuali, per rendere possibile la «comunità avvenire» al di fuori della realtà eccezionale e temporanea della Comunità terapeutica.

Quello che ci muove quotidianamente, spingendoci ad uscire di casa per occuparci del disagio dei ragazzi è il bisogno di mettere a frutto la nostra esperienza di educatori, che andiamo arricchendo sul campo e attraverso forme avanzate di aggiornamento nelle quali un posto di rilievo va assumendo il ruolo delle emozioni e dei sentimenti e la loro educazione.

Se non è più pensabile l’azione educativa degli insegnanti senza competenze psicologiche, anche noi dobbiamo orientarci ad apprendere dall’esperienza, dentro la relazione con i ragazzi che ci sono stati affidati e che si affidano a noi, come si regola la distanza con i ragazzi, perché assieme alle competenze intellettuali che siamo portati più facilmente ad esibire nell’azione culturale ed educativa risalti la COMPETENZA EMOTIVA che si richiede sempre più dai Volontari che operano con i giovani.

V. Ego cum

[ Oltre le definizioni dell’uomo come animale politico, cioè sociale (Aristotele), come animale razionale (Cartesio) e come animale simbolico, cioè capace di produrre linguaggi (Cassirer, Eco), è tempo di definire l’uomo rispetto a ciò che fa, a come lo fa, a coloro con cui lo fa. Ego cum è parafrasi del cogito(sum) di Cartesio: il sum dell’uomo, cioè il suo essere, non coincide con il pensiero [cogito(sum), cogito=sum]; se il sum è solo cogito, è tempo di incominciare a pensare l’uomo con (cum) gli altri, ma a partire da quel con. Allora, si potrebbe dire, la mia essenza si definisce a partire dalla mia capacità di stare-con, di «fare» comunità con gli altri.

La relazione che l’uomo intrattiene con l’altro uomo non lo vede in pericolo. Essa impone un’apertura. Questa apertura non è psicologica, ma morale. ]

L’oggetto della nostra attenzione, ciò di cui si fa questione qui non è il Volontariato, l’area culturale di appartenenza di questa o quella Associazione di volontariato, ma la figura del Volontario.

Se il campo d’azione di volontariato è stato definito rispetto a ciò con cui confina – l’altro da sé che gli è indispensabile per poter sussistere -, apparirà insuperabile l’esperienza e il sentimento della solitudine o meglio dell’ARRISCHIO DELLA RELAZIONE: l’altro come ‘deviante’, come ‘dipendente’ è il prossimo da amare.

La relazione nella quale si decide l’emozione che legherà l’altro a noi non ci vede al riparo, ma esposti; impone un’apertura. L’arrischio della relazione non è, tuttavia, da intendere come ‘esposizione’ del singolo ad una situazione di pericolo, come se avesse di fronte una forza superiore da sormontare, come se dovesse ‘difendersi’ da un ‘assalto’.

Il rapporto con l’altro nella relazione è piuttosto definibile negli stessi termini in cui si pone quello che il docente intrattiene con l’allievo, l’educatore con l’educando: la valenza di quella relazione è educativa, ma in un senso tutto nuovo per noi. Non la trasmissione di un sapere o addirittura di un’esperienza è in gioco. Il CONTATTO con l’altro impegna l’educatore su un terreno che non è cognitivo e basta: la cognizione che si vuole suggerire, lo schema cognitivo che si intende proporre ‘passa’ non attraverso l’intelletto soltanto, ma soprattutto attraverso la partecipazione comprensiva. E’ una questione di medesimezza umana. L’altro, pur nella sua irriducibile alterità, è ‘simile’ a noi.

VI. Una mente ospitale:  Ama lo Straniero come te stesso

[ A partire dall’evangelico «Ama il prossimo tuo come te stesso», qui si tenta di definire il «prossimo». Si tratta del distante, non del vicino, del parente, dell’amico. – «Che merito c’è ad amare quelli che ci amano?» – Dal riconoscimento del prossimo come altro, come distante da riconoscere in quanto tale, senza abolire la differenza, dipende la possibilità stessa di «fare comunità». – E’ in questione anche il significato dell’amore, giacché si tratta di amare il prossimo. L’amore cristiano corrisponde alla responsabilità dei laici. Leggere: MASSIMO CACCIARI, La nascita dell’individuo; FULVIO FERRARIO, Amore non vuol dire amare ]

Enseña el Cristo: a tu prójmo / amarás como a ti mismo, / mas nunca olvides que es otro. (Insegna il Cristo: amerai il tuo prossimo come te stesso, / ma non dimenticare mai che è un altro), ANTONIO MACHADO.

«Prossimo, infatti, è ciò che differisce «inesorabilmente» da noi. Prossimo è soltanto ciò che possiamo concepire come avente un proprio carattere e un proprio luogo distinti dal nostro carattere e dal luogo che noi occupiamo. L’ansia di eliminare la distanza non produce comunità, ma, all’opposto, ne dissolve la stessa idea. Può produrre comunità, invece, soltanto uno «sguardo» che custodisce l’altro nella sua distinzione, un’attenzione che lo comprenda proprio sulla base del riconoscimento della sua distanza. L’intelligenza del prossimo non consiste nell’afferrarlo, nel catturarlo, nel cercare di «identificarlo» a noi, ma nell’ospitarlo come il perfettamente distinto». L’altro è il prossimo da amare. Ma l’amore come arma, strumento e modalità conoscitiva è più che un sentimento: «amore non vuol dire amare». L’amore del prossimo consiste nel riconoscimento di una situazione critica e nella disponibilità a farsene carico. Il linguaggio non religioso chiama ciò «responsabilità». Tra etica della convinzione ed etica della responsabilità a costituire compito è ormai quest’ultima.

VII. ETHOS ANTHROPOI DAIMON

[ La relazione con il ragazzo e la sua famiglia è definita etica. La relazione etica – e non psicologica – allude ad un legame originario, a un fondo comune che è dato dalla comune appartenenza di genere.

Essere parte del genere umano richiede un’etica originaria, un quadro di regole, cioè, che trovi il suo fondamento nell’ethos, nel costume collettivo. Ma ethos, come è detto nel titolo del paragrafo, rinvia a daimon: un filologo ha proposto di tradurre quel frammento del filosofo greco Eraclito come se ethos avesse in comune con daimon una radice in quello che di proprio, di soggettivo c’è in ognuno di noi.

Il mio ethos è il mio daimon. La mia moralità trova la sua radice originaria nel mio modo di essere. Incontrerà l’ethos dell’altro nel suo daimon. Il demone è quello che ci spinge ad agire. ]

Il rapporto che si istituisce sul campo con il ragazzo e con la sua famiglia si definirà sempre più nell’ambito di una cultura della RELAZIONE ETICA. L’azione educativa è anche etica, in quanto mira ad instaurare un insieme di comportamenti finalizzati ad un valore. Ciò che si tratterà di fondare è la possibilità di un ethos comune.

L’azione di volontariato incontra il suo fondamento in un’ETICA ORIGINARIA, nel riconoscimento che Ethos anthropoi daimon, che significa: «Demone a ciascuno è il suo modo di essere». Ethos, più che il comportamento collettivo o il costume, come abitualmente si dice, designa il modo di essere. Designa il modo di essere di ciascuno inteso nella sua irripetibile unicità: il modo di essere che è suo, che gli è proprio. L’etimo stesso di ethos contiene una radice che allude al suo, al sé. L’ethos pertiene all’esistente umano nella sua unicità. Indica ciò che è proprio dell’unico. Per questo esso corrisponde al daimon.

VIII. Fare comunità

[ La comunità non esiste. Essa non è già data. E’ il ‘da farsi’. E’ il luogo dove si fa l’esperienza dello stare-con. E’ fare, produrre, riscoprire la propria natura nell’appartenenza di genere. L’uomo non è un individuo irrelato. L’essenza del suo fondamento risiede nel suo cum, più che nel suo sum. ]

Nella relazione che si stabilisce con il ragazzo si definisce un orientamento: il cammino comune trova il suo Oriente nella individuazione di un ‘da farsi’, che è comunque l’instaurarsi di un ‘legame’ che aspira a negare i ‘vincoli’ precedenti.

Non si tratta solo di «mandare in Comunità» un ragazzo che ci chiede aiuto: per breve tempo, noi dovremo ‘legarlo’ a noi e poi ‘indurlo’ a partire, ad allontanarsi da noi. E lui lo farà volentieri, perché è ‘chiamato’ altrove.

Là dove andrà dovrà uscire dall’Ego sum, per essere Ego cum: dovrà «fare» Comunità. Dovrà imparare a pensare quel cum. Troverà nel luogo chiamato Comunità – che è il «da farsi» – ‘nemici’ ossia ‘stranieri’. Con essi dovrà non solo intrecciare un dialogo, ma trovare la dimensione del noi, dentro la quale soltanto si dà quella prossimità che non è l’indistinto dell’intersoggettività impersonale, ma sempre di nuovo un Terzo da dare, da riconoscere: la dimensione della Giustizia, che si fonda ponendo ogni distinto nella sua luce, esaminandolo con cura, riconoscendo all’altro ciò che gli spetta.

«Analizzare ogni grumo, amare la distinzione, riconoscere a ciascuno i suoi diritti, distinguendosi l’un l’altro – questa sarebbe giustizia. […] Per esercitare una tale giustizia in grande stile, un uomo deve poter sentire in se stesso la lotta tra distinti poteri, e non volere che nessuno tramonti, lasciare che la loro lotta continui» (CACCIARI).

Prima che il ragazzo vada a «fare» Comunità, noi dovremo prepararlo, non semplicemente ‘raccontandogli’ che cos’è la Comunità ‘data’, perché quest’ultima non esiste, non è in nessun ‘luogo’. Anch’essa è un ‘sito’, un ‘dove’: è dove si fa l’esperienza del cum. La Comunità deve essere ‘fondata’ sempre di nuovo. La Comunità esterna, quella nella quale il ragazzo entra, deve essere a sua volta ‘riconosciuta’, perché si apra la possibilità per il ragazzo di farla, cioè di fondarla dentro di sé.

Prima che il ragazzo ‘decida’, cioè scelga di ‘separarsi da…’, noi dovremo farlo uscire dal suo Ego sum e indicargli la realtà dell’Altro, a partire dall’altro che è dentro di lui.

Ma le ragioni che portano una persona a scegliere la Comunità, a separarsi dall’esperienza assoluta di piacere in cui è immersa, restano spesso sconosciute. Se essenzialmente il ragazzo parte perché non può più continuare come prima, quando resta occorre aiutarlo a cercarsi qui. Il fare che è qui in questione si ripropone, al di fuori del contesto protetto e avvolgente della Comunità, nello spazio aperto della società civile, dove è possibile sempre trovarsi e perdersi, perché tra la piccola comunità che è la famiglia – che non fa più contesto – e la società più ampia, con i suoi riti formali, non si dà comunità, se non nelle forme occasionali e provvisorie che sono consentite alle aggregazioni locali che operano ispirandosi a qualche valore di riferimento. Al di qua della Comunità c’è forse solo il mondo del volontariato, assieme alle altre forme di aggregazione autonoma e/o spontanea.

Al di qua della Comunità c’è il campo aperto delle infinite relazioni possibili. Dentro questa illimitata possibilità d’azione si situa la libertà di ciascuno di noi.

In questo ‘al di qua’, nel mancato riconoscimento del bisogno di comunità, occorre pure cercare la possibilità di andare verso la libertà.

IX. Una filosofia dell’esperienza

In verità, in verità io vi dico:  se il chicco di frumento caduto nella terra non muore, resterà solo; ma se muore, allora produrrà gran frutto.

Vangelo di Giovanni, XII, 24

La conoscenza e la comunicazione con la realtà dell’altro sono possibili ed autentiche a patto che noi riusciamo ad accostarci all’esperienza che l’altro fa del mondo riconoscendola come tale. E’ indispensabile pensare l’esperienza che l’altro fa come dotata di senso, come intimamente orientata ad un valore. Se dovesse apparirci priva di senso, è solo perché non condividiamo, non riconosciamo come correttamente orientata ai valori la sua esperienza. Il compito più grande è arrivare a percepire rispetto a quale comunità – che può non coincidere con la nostra – quella esperienza giunge a dare senso alle cose e ad orientare l’azione: si tratta, in sostanza, di rispettare l’universo di senso a cui appartiene la parola altrui, per poter così riconoscere dietro il senso delle parole altrui il tipo e il modo dell’appartenenza che l’altro esprime ed incarna. Se non dovesse darsi senso di appartenenza, occorre allora scoprire le ragioni dello spaesamento che l’altro vive, per decidere se si tratta di un generale sentimento della difficoltà di consistere qui ed ora oppure di una personale e soggettiva forma di disagio. In ogni caso, nell’altro bisogna cercare il suo proprio, ciò che gli appartiene, quel che fa di lui ciò che è.

Il punto di approdo teorico più importante per noi, dunque, è proprio questo: abbiamo bisogno di una filosofia dell’esperienza, perché l’azione educativa e quella terapeutica, assieme alla comunicazione quotidiana, siano sostenute da una chiara ‘percezione’ della realtà. Nel frattempo, dobbiamo proseguire nella corsa sul treno che abbiamo preso. Non possiamo ‘fermarci’, per decidere sul senso delle cose e poi riprendere la ‘corsa’: si tratta – più che di cambiare le regole mentre il ‘gioco’ è in corso – di chiarirsi a se stessi su ciò che vi è, su ciò che vale per noi e su chi noi siamo. La chiarificazione di tutto questo è ciò che chiamiamo una filosofia dell’esperienza.

Il contenuto della relazione che si instaura con l’altro non è un oggetto, una cosa, un concetto. Non è un sapere da trasmettere. Il rapporto che si stabilisce con l’altro è interesperienza, è comunicazione tra esperienze.

Descrivere questo rapporto è propriamente percorrere i quattro lati dell’esperienza.

La loro rappresentazione potrebbe essere di questo tipo:

(Realtà)

VERITA’

Esperienza conoscitiva

L’apertura al mondo ci aiuta a riconoscere il visibile e l’invisibile come una realtà dotata di senso.

BENE

Esperienza morale

La libertà (di scelta) è infondata e mira al riconoscimento dei bisogni dell’altro.

GIUSTIZIA

Esperienza politica

L’azione politica è orientata al riconoscimento dei diritti dell’altro.

BELLEZZA

Esperienza estetica

La percezione della Forma è orientata al riconoscimento dell’unicità dell’individuo.

Di volta in volta, ognuno dei quattro lati comunica con uno degli altri tre, nel senso che ne costituisce il fondamento, la base, la premessa o semplicemente lo implica, lo presuppone, rinvia ad esso.

In questo senso, la libertà, che è infondata, costituisce il fondamento dell’azione morale, ma è anche la base dell’azione politica dell’uomo libero. La libertà politica presuppone la libertà morale. Se la prima non fonda la seconda, l’azione politica è pura azione, non trova nel suo fondamento il senso e il fine storico. Se non si ha di mira il Bene, difficilmente si potrà riconoscere la Giustizia e praticarla. (L’opposizione tra comunitaristi e liberali, cioè tra chi propugna il Bene come fine e chi punta esclusivamente alla Giustizia, trova il suo momento di composizione ideale nel riconoscimento delle forme attraverso le quali il legislatore va incontro alle ‘istanze’ disinteressate della società civile).

La percezione della Bellezza e il suo perseguimento ideale costituiscono il fondamento dell’attività conoscitiva («Amore è desiderio di conoscenza»), ma anche dell’attività politica: il riconoscimento dei diritti dell’altro, infatti, si dà solo all’interno dell’esperienza politica che presuppone la capacità di ‘percepire’ l’altro nella sua unicità e diversità («Ama il prossimo tuo, ma non dimenticare mai che è un altro»). L’esperienza estetica educa all’idea che ogni individuo ha il diritto di esistere.

X. Incontro alle «cose ultime»

Harlan Sewall

Tu non comprendesti mai, o Sconosciuto, / perché abbia ripagato / la tua devota amicizia e i tuoi servigi delicati / dapprima con ringraziamenti via via più rari, / poi col graduale sottrarmi alla tua presenza / in modo da non dover essere costretto a ringraziarti, / e poi col silenzio che seguì alla nostra / separazione estrema. / Tu avevi curato la mia anima malata. Ma per curarla / conoscesti il mio male, penetrasti il mio segreto, / ed è perciò che fuggii da te. / Perché mentre, riemergendo da un dolore del corpo, / noi baciamo in eterno le vigili mani / che ci han dato l’assenzio, pur rabbrividendo / se pensiamo all’assenzio, / la cura di un’anima è tutt’altra cosa, / perché allora vorremmo cancellar dal ricordo / le parole tenere, gli occhi indaganti, / e restare per sempre dimentichi / non tanto del dolore, / quanto della mano che lo ha risanato.

Da EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River

L’approdo teorico a cui si mira è un inizio, è soltanto l’affermazione della libertà come inizio, la possibilità dell’azione, della comunicazione, del Bene tra gli uomini: è il desiderio di giustizia, di vedere la giustizia realizzata nei modi possibili.

Il termine dell’analisi, è stato detto, si ha quando il paziente non manda più al suo analista gli auguri di Natale. Ma a cosa deve mirare se non alla stessa cosa il Volontario (l’Educatore) che entra in contatto con l’esperienza del disagio e del dolore? Sulla sua strada egli incontrerà «le cose nascoste dalla fondazione del mondo». Assieme al massimo dell’immanenza coglierà l’aspirazione alla gioia e alla felicità. Penserà necessariamente che tutte le esistenze su cui piove e su cui sorge il sole conoscono l’amore e la solitudine, temono la separazione e l’assenza, aspirano al riconoscimento e sognano Dio. Insomma, avvertirà ai bordi dell’e-sperienza il richiamo delle «cose ultime». Dovrà decidere se e quando sia lecito parlare di esse, ad esse alludere, di esse tener conto nella sua azione educativa; ma soprattutto sarà assillato sempre dall’ansia di non poter attingere il loro senso, di non riuscire a raccontarne la favola al fratello che gli ha chiesto aiuto e che attende una risposta: a lui potrà solo indicare la possibilità di un altro progetto, ma dovrà sempre fare i conti con il suo destino.

Sora, 10 maggio 1998

NOTA

Il sottotitolo de Il brusio degli angeli è stato corretto. Da Saggio etico-politico sui fondamenti del lavoro di volontariato è diventato Saggio etico-politico sui fondamenti del lavoro sociale. Le ragioni andranno cercate in due direzioni diverse. Da una parte, nel contributo teorico, intitolato Liberi di donare, portato da Massimo Cacciari al Convegno di dicembre 2001, nel quale è stata presentata la Carta dei valori del volontariato. Dall’altra, nel progetto editoriale della Rivista di Erickson Lavoro sociale, curata da Fabio Folgheraiter e Bruno Bortoli, dell’Università di Trento.

Cacciari mi suggerisce la voglia di abbandonare i termini ‘volontario’ e ‘volontariato’, per la loro insufficienza semantica e per il fatto che rischiano di risultare fuorvianti. Le argomentazioni da lui proposte sono interamente condivise da chi scrive questa Nota.

Folgheraiter e Bortoli definiscono di fatto il campo d’azione e i metodi dell’azione sociale, del lavoro sociale del ‘volontariato’, a partire dalle figure classiche dell’assistente sociale e dell’educatore di comunità. Assimilare la figura del ‘volontario’ a quella degli Operatori sociali professionali è un ‘passaggio’ vitale oggi, di fronte alle trasformazioni che subisce lo ‘Stato sociale’ sotto i colpi della globalizzazione selvaggia.


Sora, 1° novembre 2002

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.