Nel pomeriggio di ieri il Direttore di Exodus, Franco Taverna, ha annunciato la morte di Gabriella. Subito dopo la necessaria notizia e il cordoglio, poche righe, dei versi:
Il combattimento è finito.
Ormai per lei non ci saranno più lacrime,
né pianti, né sussulti.
Il sole brillerà per sempre sulla sua fronte,
e una pace intangibile assicurera’
definitivamente le sue frontiere.
(Ignacio Larranaga)
*
L’immagine delle frontiere, che lei sia dentro le sue frontiere, introduce a uno sguardo sconosciuto: ci immette nei territori dell’Irrappresentabile per eccellenza. Pace intangibile, sicurezza definitiva. Il sole brillerà per sempre. Non Ombra né tenebra. Addirittura, luce, sole.
Quel che colpisce di più nelle parole di questo religioso è, però, l’idea che Gabriella oggi sia al sicuro dentro le sue frontiere. Certo, è finito l’assedio del dolore. Anche noi, talvolta, pensiamo che chi muore cessa di soffrire. Ma non ci spingiamo oltre. Padre Ignacio ha pensato quell’oltre. Gli ha dato un nome.
Non è un vasto territorio, ma i tratti del paesaggio abitato ci sono già tutti: il sole, la pace, la certezza oltre il tempo mondano della fine degli affanni.
Stupisce positivamente questa visione rasserenata della Morte. Ho fatto esperienza soprattutto della non accettazione della Morte presso i credenti. La sua inclusione tra i fatti di natura e la speranza della Resurrezione, della seconda vita poco presenti. Temo di dover dire che nessun credente – quasi nessuno – arrivi preparato all’appuntamento con la morte dei propri cari. In loro aiuto interviene la parola dei presbiteri, che coraggiosamente negano che il fratello chiuso nella bara sia veramente morto e che sia deprecabile quello che gli è accaduto. Segue la lista dei vantaggi, dei premi, dei guadagni. Il cielo (“ci guarda dall’alto”), la vicinanza del Padre (“ora è accanto a lui”), la luce (“ora è nella luce”)… La sconfitta della morte.
Sarà colpa del fatto che non si ama parlare della Morte, che la si proietti in un tempo lontano, quasi fuori del tempo di vita? Sarà colpa della vita di corsa, della sindrome della fretta, del dominio dell’effimero? Seneca aveva elencato già per noi i vari tipi di uomini indaffarati, che finiscono per rendere breve la loro vita, ché consumano il tempo dato in opere e affari, riservando poco spazio alla cura dell’anima. Ma soprattutto aveva indicato la strada: vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo della nostra vita, per poter dire a sera che abbiamo goduto di un altro giorno e sentirci paghi del buon vivere.
Negli anni dell’Università mi giunse notizia di un Convegno internazionale, che si teneva a Gavirate, dal tema: Cara morte. Scrissi al Sindaco e mi feci spedire la locandina, perché al centro di essa campeggiava il Cristo morto di Mantegna. Per anni ho tenuto quella locandina ben in mostra nella camera in cui studiavo e poi l’ho portata con me per anni ancora, fino a quando non ho avuto più bisogno di ricordare, perché il pensiero della Morte aveva preso ad accompagnarmi quotidianamente, rendendo più serena la mia vita.
Ho vissuto la morte di mio padre, recentemente quella di mia madre. Corro sempre a fare visita alle famiglie di amici e conoscenti che siano toccate dall’esperienza della morte. Mi fermo a guardare a lungo l’immobilità della morte, tocco le mani per sentirne il freddo, accarezzo la fronte e le guance. Resto in silenzio accanto ai sopravvissuti. Parlo. Racconto aspetti della mia esperienza della morte. Così facendo, familiarizzo con essa. Un tempo ero terrorizzato dal cimitero e dai morti. Ora, non più. La pace che è intervenuta nella mia vita ha origini lontane. Proviene dal ben fare, dalla ricerca inesausta di giustizia, dal fatto che stare accanto all’Ombra, vicino all’esistenza spezzata dei ragazzi che si sono allontanati da casa aiuta a dare senso alla vita, perché tra le cose insensate essa è la più insensata: se non provvediamo noi a darle un senso, ogni cosa precipita nel vuoto e, appunto, nell’insignificanza.
Tra i nostri sforzi più grandi c’è quello di assegnare un significato al dolore e alla morte.