MICHELE SERRA, La malattia del Paese

LA MALATTIA DEL PAESE
MICHELE SERRA
la Repubblica, 25 maggio 2008

In venti contro un bengalese, colpevole di gestire un bar in un quartiere romano, il Pigneto, diventato troppo multirazziale per non meritare un po´ di pulizia etnica.Un pestaggio razzista con tutti i crismi, odio di branco, schifosa vigliaccheria. Alcuni degli aggressori – raccontano i testimoni – avevano il volto coperto e svastiche sui foulard, ma la polizia non si sbilancia sulla natura dell´assalto. Fossero neonazisti organizzati, o solo teppisti xenofobi, non è comunque un episodio isolato. Una delle tante varianti della crescente violenza di strada contro gli stranieri, i diversi, gli estranei, i non riconosciuti in quel “noi” paranoico, pericoloso, infurentito, che sta riarmando in molte parti d´Italia teste calde, bande fasciste, gruppi di ragazzotti che aspettavano solo un pretesto “politico” per menare le mani. Si va dal pogrom anti-rom di Napoli all´aggressione mortale al ragazzo veronese che sbaglia la risposta al gruppo di bulli in pattugliamento. Dalla pazzesca (e troppo in fretta dimenticata) spedizione punitiva di un paio d´anni fa contro un “concerto comunista” a Roma, aggredendo e terrorizzando un pubblico pacifico, al profluvio di minacce e insulti contro le varie “infezioni” che insidiano il quartiere o la città o la Patria, ai manifesti politici dei partitini nazi-negazionisti che chiamano alla mobilitazione contro gli immigrati, gli omosessuali e gli zingari in difesa di una “purezza” paranoica, tragicamente comica, o comicamente tragica. È una catena, ma è soprattutto un clima. Non ancora bene inquadrato, va detto con amarezza e allarme, dalle varie e severissime misure del governo in materia di ordine pubblico. Un clima trascurato dalla campagna elettorale romana, che pure sulla sicurezza spese quasi tutta la sua adrenalina. Un clima che getta una luce meno tranquillizzante, e meno “popolare”, sulla parola “territorio”, parola magica delle analisi politiche e sociologiche. Perché il territorio, dentro quei cervelli da rastrellamento, è poi il movente e al tempo stesso l´alibi, il territorio siamo “noi”, i nostri bar, le nostre strade, le nostre abitudini, e “loro” se ne devono andare, anche se magari – come al Pigneto – loro lavorano e tutti i giorni aprono una saracinesca su una strada, e parecchi di “loro” sono socialmente molto più inseriti, rassicuranti, utili di quanto lo siano i bulli, i nazisti da pub, i picchiatori di sempre. Quasi tutti, tra l´altro, battezzati alla violenza in quegli enormi, spaventosi serbatoi di intolleranza che sono (da moltissimi anni) le curve di stadio, luoghi dove si grida con spensierata allegria “negri di merda” e ci si addestra alla guerra di territorio, trenta accoltellati intorno all´Olimpico solo quest´anno, e la cronaca nera che ospita con sempre maggiore frequenza gli ultras come protagonisti di delitti, incidenti tragici, cruenti deragliamenti sociali, come quello che l´altra notte ha travolto e ammazzato due ragazzi in motorino sulla Nomentana, pieno di cocaina e di rabbia. Se veramente è “la sicurezza” che ci preme, come comunità, come non vedere che la marea montante dell´intolleranza, dell´aggressività “difensiva”, forma oramai una schiuma fetida, chiama sangue, organizza in deliranti convogli di “ripulitori” la disarticolata violenza individuale, e indolenza intellettuale, di molte migliaia di ragazzi che poi, ovviamente, quando finiscono nei telegiornali sono sempre “ragazzi normali”, figli di famiglia con la macchina di papà, magari lavoratori e impiegati di buona reputazione in azienda? Lo scarto di follia, l´episodio violento, in altro clima sarebbe pur sempre marginale, il “deplorevole episodio”, l´”atto inconsulto”, e tutta la ricca casistica degli eufemismi buoni per le dichiarazioni al telegiornale. Ma questo Paese, in questo momento, ha la febbre. Il margine tra le autorevoli preoccupazioni istituzionali e la xenofobia di territorio è vistoso se guardato dai politici in giacca e cravatta, ma è sottile, è ambiguo se visto dallo sguardo torbido degli esaltati, dei linciatori in potenza, dei fanatici dalle mani pesanti, dei capo-quartiere da marciapiede. Il razzista “di base” si sente un po´ meno deprecato e un po´ meno impopolare se approfitta della circostanza politica per farsi un po´ di spazio nel suo territorio, se può sentirsi il valoroso anticorpo che attacca il virus arrivato da fuori. Il sindaco Alemanno e il governo nazionale, tra le varie emergenze affrontate con il piglio e l´entusiasmo della prima volta, hanno l´occasione (d´oro) di infilare in fretta e furia nel loro “pacchetto sicurezza” anche le insorgenze razziste, che sono tante, che sono contagiose, che sono insopportabili, e soprattutto sono (loro sì) qualcosa che infetta giorno dopo giorno il corpo sociale. Lo avvelena, ne catalizza gli umori neri, le paure più fonde e incontrollate. La destra ha il vantaggio di conoscere bene questo genere di odio: ognuno, in questo Paese, ha il suo album di famiglia. Usi dunque la sua esperienza, e la sua nuova maturità di governo, per intervenire prima che sia troppo tardi.

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