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“Nei nostri libri di lettura c’era la favola del vecchio che, sul letto di morte, dà ad intendere ai suoi figli che nella sua vigna è nascosto un tesoro. Loro non avevano che da scavare. Scavarono, ma del tesoro nessuna traccia. Quando però giunge l’inverno, la vigna rende come nessun’altra nell’intera regione. I figli allora si rendono conto che il padre aveva lasciato loro un’esperienza: non nell’oro sta la fortuna, ma nell’operosità”.
(WALTER BENJAMIN, Esperienza e povertà).
‘Primo fra tutti’, è stato Walter Benjamin, con Esperienza e povertà (1933) ad avvertirci sul pericolo di cercare lontano quello che abbiamo ricevuto già in eredità. A lui si sarebbe ispirato Giorgio Agamben nel 1978 con il suo Infanzia e storia, che ci propone una teoria dell’infanzia: l’uomo nasce in-fans, senza linguaggio. A differenza di quello che ha sempre sostenuto la tradizione metafisica, l’uomo non è “l’animale che ha il linguaggio”, ma è l’essere che ne è privo e deve, perciò, riceverlo dall’esterno. Da qui, la sua condizione di creatura fragile, esposta al mondo. Da qui, la necessità dell’educazione. Da qui, l’importanza della dimensione del cum. Buon ultimo in ordine di tempo, Giacomo Marramao (Kairós. Apologia del tempo debito, 1992) ha avvertito:
«Il termine esperienza va qui assunto nel suo significato di Er-fahrung, esperienza-viaggio, non in quello di Er-leben o Er-lebnis, esperienza-vita. L’esperienza è un er-fahren: equivale a intraprendere un viaggio. Per la stessa ragione è necessario riallacciarsi anche al termine greco em-peiría, di cui il termine latino ex-perientia è un fedelissimo calco: esso indica il movimento di un passare attraverso le strettoie del saggio, della prova. E – fatto assai poco considerato – discende dalla stessa radice di per-iculum».
L’esperienza di Exodus, il modo di fare esperienza in Exodus non si esaurisce certo nell’idea dell’esperienza come ‘vissuto’, come se il baricentro dell’esperienza personale fosse la propria coscienza, con i vissuti esperienziali accampati lì, di fronte a noi, assunti come criterio di verità.
Per i ragazzi il vissuto è quasi tutto: restano aggrappati a lungo ad esso; lo assumono immediatamente come fonte di verità, di autenticità, navigando spesso a vista, cioè procedendo per acquisizioni successive, al di qua dell’accesso al simbolico. Stimolati a mettersi in cammino, quando abbiano ritrovato se stessi, vengono guidati attraverso gli spazi aperti, per ricostruire il personale paesaggio affettivo.
Certo, bisogna tornare in sé, riacquistare coscienza delle proprie azioni, imparare a camminarsi dentro, ma questo sarà un movimento ‘dall’esterno’: siamo in cammino anche verso noi stessi, ma il vero cammino è quello che intraprendiamo verso gli altri e verso il mondo.
Le basi dell’educabilità di un Educatore sono tre: muovere verso noi stessi, verso gli altri, verso il mondo. La condizione dell’educabilità dei ragazzi dipende interamente dalla capacità di educare se stessi.
Non mero esempio, come si diceva un tempo. Certo, è importante essere testimoni di ciò che si proclama, ma non come predicatori di verità, atteggiandosi a sapienti, a custodi di verità per iniziati. Piuttosto, gente comune, ‘scarti’: don Antonio Mazzi dice ‘scartini’.
Al di là e oltre il vissuto conta essere in cammino, in esodo dallo spirito del tempo (dai suoi vizi). L’esperienza di Exodus, il nostro modo di fare esperienza si riassume nell’idea del viaggio. E viaggiare significa andare incontro al saggio, alla prova. Uscire dalle nostre tiepide case, per incontrare gli altri, il mondo.
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