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Tutte le persone che incontrarono Franz Kafka nella giovinezza o nella maturità ebbero l’impressione che lo circondasse una «parete di vetro». Stava là, dietro il vetro trasparente, camminava con grazia, gestiva, parlava: sorrideva come un angelo meticoloso e leggero; e il suo sorriso era l’ultimo fiore nato da una gentilezza che si donava e si tirava subito indietro, si spendeva e si chiudeva gelosamente in se stessa. Sembrava dire: «Sono come voi. Sono uno come voi, soffro e gioisco come voi fate». Ma, quanto più partecipava al destino e alle sofferenze degli altri, tanto più si escludeva dal gioco, e quell’ombra sottile di invito e di esclusione sul margine delle labbra assicurava che egli non avrebbe mai potuto essere presente, che abitava lontano, molto lontano, in un mondo che non apparteneva nemmeno a lui.
Cosa vedevano gli altri, dietro la delicata parete di vetro? Era un uomo alto, magro, esile, che portava in giro il suo lungo corpo come se l’avesse ricevuto in dono. Aveva l’impressione che non sarebbe mai cresciuto; e non avrebbe mai conosciuto il peso, la stabilità, l’orrore di quella che gli altri chiamano con gioia incomprensibile l’«età matura». Una volta confessò a Max Brod: «Io non vivrò mai l’età virile: da bambino diventerò subito un vecchio coi capelli bianchi».
Tutti erano attratti dai suoi grandi occhi, che teneva molto aperti e talora spalancati e che in fotografia, colpiti dal lampo improvviso del magnesio, sembravano da spiritato e da visionario. Aveva le ciglia lunghe: le pupille venivano definite ora marroni, ora grige, ora blu-acciaio, ora semplicemente scure, mentre un passaporto assicura che erano «grigio-blu scure». Quando si guardava allo specchio trovava che i suoi sguardi erano «incredibilmente energici»: ma gli altri non finivano di commentare e di interpretare i suoi occhi, come se soltanto essi offrissero una porta verso la sua anima. Qualcuno li giudicava pieni di tristezza: qualcuno si sentiva osservato e scrutato: qualcuno li scorgeva illuminarsi di un tratto, splendere con dei granelli d’oro, poi diventare pensosi e addirittura scostanti: qualcuno li vedeva penetrati di un’ironia ora mite ora dissolvente: qualcuno vi scorgeva stupore e una strana furbizia: qualcuno, che lo aveva molto amato inseguendo in mille modi il suo enigma, pensava che, come Tolstoj, egli sapesse una cosa di cui gli altri uomini non sanno nulla: qualcuno li trovava impenetrabili; qualcuno, infine, credeva che una calma di pietra, un vuoto mortale, un’estraneità funeraria dominasse a volte il suo sguardo.
PIETRO CITATI, Kafka, 1987