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L’immagine di un volto è il risultato della costruzione mentale di anni, quando la frequentazione di una persona sia stata lunga e sia stata segnata dalla profondità degli affetti. Dire che è un risultato poi significa alludere al lungo processo che ha favorito dalla propria nascita l’assunzione del volto di lei – della propria madre – ad emblema della vita stessa e delle cose care.
Raccontare quel volto significherebbe fare un resoconto dell’intera mia esistenza, dalle attese consumate a tavola, mentre lei preparava di là il pranzo, agli anni in cui l’ho vista intenta al lavoro dell’uncinetto. La sua paziente laboriosità e l’instancabile cura delle cose hanno fiaccato la mia anima. Indolenzito d’amore, tutte le volte che oggi provo una intensa commozione è come se tornassi a patire la sua silenziosa presenza.
Questa foto in bianco e nero, scattata da me e stampata nella mia camera oscura, fu rubata a lei, che non amava farsi ritrarre, mentre lavava i piatti. Io la chiamai, perché si voltasse, e fermai in immagine quello che poi si rivelò il mio capolavoro. A dispetto dei difetti della stampa, qui è ombra, più ombra che luce, tenue ombra, che pure seppe guidare la mia vita. Per vie nascoste, teneva il mio cuore. Senza realizzare una presa diretta, mi teneva stretto a sé. Pochi mi chiamano per nome: preferiscono dire ‘professore’. Quando qualcuno mi chiama per nome è lei che mi chiama. E’ come se solo lei sapesse di me. Scelse lei il mio nome.
Questa foto mi rimanda la sua voce roca e gentile, dolcissima e spesso accorata; e poi gli affanni che segnarono la sua lunga vita e le pause che sempre metteva in mezzo alle liti e la disapprovazione per i contrasti e il conforto che veniva solo da lei e un ridere basso e ricordi e nemmeno un rimpianto.