Di una cosa le madri oggi sono assolutamente certe: il padre è assente. Su questa certezza costruiscono ogni altra certezza educativa, che si traduce nel fatto disastroso che fanno senza il padre, a dispetto della sua esistenza. Pur non essendo orfani di padre, i loro figli finiscono poi per vivere come se non avessero un padre. Accusano ciò che resta di lui di non essere tale, di non saperlo essere, di non fare abbastanza.
A questo proposito, è facile dimostrare che il padre non è: parla poco con i figli, non ne è capace; non c’è quasi mai fisicamente; quando c’è, preferisce lasciare a sua moglie il compito di fare per tutti e due – delega, come si suol dire -, salvo poi ripresentarsi, a distanza di decenni, a rivendicare un ruolo mai ricoperto o ricoperto solo in parte e in modo goffo e superficiale.
Qualche anno fa Doris Lessing dichiarò in un’intervista risentita che intendeva levare la sua protesta contro le donne di oggi, che si spingono fino al punto di ritenere di essere migliori degli uomini: anche la donna più stupida è convinta di essere superiore a tutti gli uomini! Ogni donna stupida si sente in diritto di umiliare gli uomini che incontra sul suo cammino. Io ritengo immodestamente, senza aver fatto nessuna indagine sociologica, e senza avere le percentuali indispensabili per poterlo affermare, che la violenza contro le donne nasce da qui o che, almeno, si spieghi così tanta parte di essa, specialmente quella che si consuma dentro le mura domestiche. Sperimento quotidianamente sulla mia pelle la crescita e l’esplosione dell’aggressività tutte le volte che vedo negato il mio ruolo di padre, di insegnante, di operatore sociale: si può dire tutto di me – mi si può anche insultare e offendere senza alcuna prova, e riesco a sopportare, anche a ridere del falso che si dice -, ma non mi si può negare impunemente: i mancati riconoscimenti generano rancore (anche in campo politico, la manipolazione della realtà ad opera dei delinquenti al governo e la negazione di ogni verità sociale per affermare la propria ideologia narcisistica genera odio, puro odio).
Il destino dei padri, però, non è nelle mani delle donne, anche se esse non fanno nulla per farli esistere presso i loro figli, si appropriano indebitamente della loro funzione e finiscono pure per sfottere i maschi, che oggi sono definiti fragili e deboli, persino superflui, giacché il seme (maschile) si può acquistare in Banca e si procede verso la generazione della vita senza il bisogno di ricorrere al maschio e alla sua presenza… Il destino dei padri non è nelle mani delle donne, ché esse non sanno cosa sia un maschio e, soprattutto, un padre: se sapessero, insegnerebbero ai loro figli – soprattutto ai figli maschi – a cercare il proprio padre, a rispettarlo, ad onorarlo per quello che è, non per quello che fa. Con la scusa che il padre non c’è, lo negano: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se è vero quello che scriveva il sociologo tedesco Alexander Mischerlitch, che questa è una società senza padre, nella crisi dell’autorità, dell’autorevolezza paterna risiederebbe tanta parte dei mali della società, del destino delle giovani generazioni…
Io sono da sempre molto al di là di tutte queste chiacchiere. Conosco solo una madre, un solo tipo di madre: le altre – tutte le altre – come madri, come mogli e come donne, non servono a niente. Ricordo quello che faceva mia madre e mi basta, per sapere che una donna che rimane in casa per tutto il tempo ha il dovere di parlare ai propri figli del padre che è uscito per andare a lavorare. La (mia) famiglia è nata su quella base: il padre esce per andare a lavorare, la madre resta a provvedere alla casa e ai figli. Mia madre parlava ai suoi quattro figli del padre per tutto il giorno, non perché si appoggiasse alla sua energia fisica, alla sua capacità di impartire punizioni al rientro, al timore che avevamo di lui… Lei considerava peccato il fatto che noi non onorassimo con il nostro comportamento un uomo che era uscito per andare a fare per noi. A quei tempi esisteva la religione: applicavamo il comandamento Onora il padre e la madre. Prima di tutto, il padre. Non solo perché nell’ordine dei generi precedesse sempre il femminile! Si onorava il padre e la madre, senza assegnare primati, ma era come se dal riconoscimento del padre dipendesse ogni altro aspetto della realtà: capivamo già in tenera età che quella figura incarnava valori. Oggi è stato svuotato di senso perfino il termine: per oltre venti anni ho chiesto a tutte le mie classi cosa fosse un padre e che cosa fosse un maschio, ma non mi ha saputo rispondere mai nessuno seriamente e in modo compiuto!
Io ho sempre saputo cosa significasse la parola padre. La voce di mio padre è stato uno degli eventi più importanti della mia vita. Quando mia madre ci parlava di lui, io sentivo la sua voce. Per questa via, è stato possibile introiettare la sua figura, accogliere dentro di noi e riconoscere la sua autorevolezza morale, anche se si trattava di un uomo semplice, sfornito perfino di licenza della scuola elementare! Da quell’uomo semplice ho appreso tutto quello che c’è da sapere: la vita buona. Egli era un uomo onesto. (Per questo odio i fascisti al governo, che corrompono tutto ciò su cui cadono i loro occhi immondi). Avendomi insegnato il valore dell’onestà, posso dire che mi abbia insegnato tutto: esiste una sola virtù – come afferma Cicerone – e questa virtù è l’onestà. Da essa discendono tutte le altre virtù dell’uomo. Questo è stata la mia vita.
Eppure, detto questo non è stato detto tutto. Resta il mistero del padre, il fatto misterioso, per cui un padre, anche quando non sia degno di essere chiamato tale – anche quando, anzi, sia del tutto privo di virtù -, viene amato dal figlio, riconosciuto come tale, a dispetto di vizi e mancanze. Due fatti emblematici per me ‘spiegano’ tutto: un film – Era mio padre (2002), di Sam Mendes – e un aneddoto preso in prestito dalla cronaca – un’intervista alla figlia di Totò Rijna -. Nel film, alla fine della storia la voce narrante, in un suggestivo ‘fuori campo’, ci fa sentire le parole che danno il titolo al film, per significare che quell’uomo, di cui non si poteva certo dire che fosse una figura di cittadino esemplare, ché aveva ucciso, era un padre. Nell’intervista a cui si era sottoposta, la giovane studentessa liceale del noto boss mafioso tra una risposta e l’altra pronunciò le parole mio padre. A parte il film, su cui si può discutere, data la sua natura fantastica, anche se verosimile, ci colpisce il fatto che qualcuno possa chiamare padre un uomo che si è macchiato di numerosi delitti. In questo evento culturale – questo sì è un evento per me – si riassume il significato e il segreto e il mistero del padre. Io non ho bisogno di indagare sulla natura della relazione esistente tra quella giovane studentessa e quell’uomo imprigionato per i suoi efferati delitti. Non andrò certo a leggere le scemenze che scrivono i giornalisti. Mi basta il fatto che quella ragazza, per niente stupida, abbia detto: mio padre. Debbo spiegarmi come ciò sia possibile. E, soprattutto, cosa ciò significhi. Che cosa ne consegua. A questo fatto, per me notevole, dedicherò una prossima lunga riflessione.
Dal 1975, anno di esplosione del femminismo in Italia, molte cose sono cambiate: la consapevolezza e la condizione materiale delle donne è migliorata; le leggi hanno recepito sempre più i diritti di ogni tipo. Le donne sono uscite di casa. Si realizzano nel lavoro. Proseguono nel loro cammino di emancipazione, nella direzione dell’uguagliamento dei diritti, ma non sembra che nella vita di relazione i due sessi vivano bene i mutamenti antropologici intervenuti. I maschi non sono più quelli di una volta. Vengono su generazioni di maschi sempre più consapevoli. Eppure, sembra che essi vengano individuati come interlocutori sbagliati, come se le donne parlassero ai maschi di una volta. Per di più, attribuiscono le derive del tempo al maschio, come se dovessero provvedere da soli ad affermarsi come padri. Ma nessuna donna ha un’idea di che cosa significhi ciò che viene rimproverato ai maschi; cioè che cosa essi debbano fare – come padri – non è chiaro a nessuno.
Vorrei subito rispondere, però, ad un’obiezione che salirà subito alla bocca di tutti: le donne provvedono alla casa, alla famiglia; sono dedite al lavoro; hanno il diritto di pensare a se stesse come donne, almeno un po’. Certo. E ancora molto bisogna fare sulla via del riconoscimento dei sacrosanti diritti delle donne. Ma nella società non più patriarcale, esistono diritti maschili? I figli maschi debbono solo dedicarsi all’alcool e alla droga? Nell’inverno del 2003, venne nella mia città don Antonio Mazzi, invitato da me per un’intera giornata. Al mattino incontrò le scuole, il pomeriggio gli Amministratori del territorio, la sera gli adulti. In quest’ultimo incontro, tra le tante questioni educative che toccò, mi colpì tanto quello che disse della donna: non è possibile che il ruolo di donna, di moglie, di madre debba indurre oggi la donna a fare pasticci e a far pesare la sua incapacità di fare bene tutte e tre le cose sulla famiglia e sui singoli membri che la compongono. La moglie non può essere mai messa in discussione, perché deve pensare a tutto lei, perché deve lavorare, fare la madre e la casalinga. La madre non può essere mai messa in discussione, perché deve fare la moglie – cioè, accudire il marito incapace -, lavorare e provvedere alla casa. La donna non può mai essere messa in discussione, perché deve pensare anche a se stessa, pur portando tutti i pesi: del lavoro, della famiglia e della casa, mentre suo marito è assente. Don Antonio disse che le donne dovrebbero decidersi a fare bene le cose che hanno deciso giustamente di fare. Ma si può dire che siano buone madri? Una donna che usurpa il diritto all’educazione dei figli – soprattutto dei figli maschi – è una buona madre? Una donna che sul lavoro passa il tempo a dire che deve correre a casa e che non ha molto tempo oltre quello richiesto perché ha casa e famiglia a cui pensare è una buona lavoratrice? …
La cosa più divertente per me è lo spettacolo delle madri degli eroinomani – non c’è niente di più tragico, e di più comico, per me – le quali sono fieramente convinte del fatto che il padre è assente. Per decenni continuano a dire che il padre ha delegato tutto a loro. Non spiegano mai però come sia possibile che loro non abbiano saputo impedire che il loro figlio (maschio) precipitasse in un burrone dal quale forse non risaliranno più; come sia possibile che dopo decenni di tentativi non abbiano salvato il loro figlio; come sia possibile che gli Educatori nelle Comunità arrivino a un certo punto a suggerire ai ragazzi di non tornare più a casa, di imparare a fare a meno dei loro genitori (soprattutto di quelle madri meravigliose), di cercare di (ri)costruire un rapporto con il loro padre, indipendentemente da quanto possa aver detto per decenni la madre di lui.
L’Educatore che sta accompagnando il gruppo della sede di Bormio in Carovana, un giro in bicicletta attraverso l’Italia, mi raccontava alcune sere fa quanto segue: i ragazzi non hanno mai conosciuto di persona don Antonio Mazzi, eppure desiderano incontrarlo; al pensiero che scenderà prossimamente per incontrare proprio loro e che a ottobre potranno abbracciarlo a Sirmione del Garda, in occasione del Capitolo annuale, addirittura si commuovono! Vorrei tanto che le madri onnipotenti mi spiegassero come sia possibile amare un padre come questo che non si è mai visto fisicamente! Ai poveri di spirito diremo che l’Educatore parla tutti i giorni di don Antonio ai ragazzi!
Ieri sera, al Centro di ascolto in cui faccio il volontario si è presentato un ragazzo uscito recentemente dalla Comunità. Il tema del colloquio è stato il rapporto con i suoi genitori, in particolare con suo padre. A quest’ultimo Pietro rimprovera il fatto che non gli viene incontro. In seguito, egli ha chiarito che si riferisce al fatto che il padre non lo cerca. Una settimana fa suo padre Antonio mi diceva che è irritato con i suoi due figli, che vivono con la madre, perché lo trascurano come padre; ma, soprattutto, Antonio mi diceva con rammarico che vorrebbe far conoscere a suo figlio la sua vera natura, ché è convinto del fatto che suo figlio non sappia chi è lui veramente. Antonio rivendica il diritto di essere riconosciuto per quello che è, non per quello che fa. A Pietro ho spiegato in modo credo convincente che deve scegliere se cercare suo padre, se riconoscerlo come tale, se ascoltare la sua voce. Deve decidere: si tratta di dire: questo è mio padre. Il resto è stupida violenza.