L’infelicità più grande è tendere verso la felicità e non poterla raggiungere quando essa sia a portata di mano.
E’ stata Elsa Morante a dedicare la Canzone dei Felici Pochi e degli Infelici Molti a qualcosa che ci riguarda da vicino, cioè alla possibilità di essere felici. Sappiamo perfettamente tutti che cosa si richieda per non essere infelici, che cosa si debba trovare per essere felici.
Aspiriamo ad avere quello che vogliamo da persone che sono lì, a due passi da noi – i grandi amori di lontano qui non sono in questione -: finiamo anche per dire compiutamente cosa vogliamo; non si può dire che non è dato sapere…
Eppure, quanto abbiamo atteso una comprensione che non è mai venuta? Quante discussioni abbiamo fatto? quanti viaggi inutili? quante ricerche vane? per non ammettere che quello che ci mancava non lo chiedevamo alla luna né al vento? Non lo abbiamo scritto sulla sabbia né con l’inchiostro simpatico; non attraverso linguaggi indecifrabili ci siamo manifestati; non abbiamo chiuso il nostro cuore. Eppure, quanto abbiamo disperato di noi! Quanto amore abbiamo atteso invano!
Ci siamo convinti del fatto che sia più importante dare che ricevere! Siamo arrivati al punto di cercare conforto e riparo nell’assoluta mancanza di riscontri nella realtà: ciò che era più assurdo ci sembrava a tratti la via più breve – anche se interminabile! – per meritarsi un premio che non è arrivato mai. Abbiamo chiesto e richiesto e chiesto di nuovo. Abbiamo imprecato e implorato, scongiurato e pianto sommessamente.
Abbiamo tentato la rupe di Leucade, ma sul punto di lanciarci nel vuoto abbiamo compreso quanto vano fosse sperare che in fondo a quel volo potesse esserci una speranza di salvezza: la salvezza era indicata paradossalmente proprio nella rinuncia alla passione e allo strazio, mettendo fine all’una e all’altro!
Ci siamo convinti del fatto che non abbia senso cercare di meritarsi l’amore che non viene, giacché non per i nostri meriti ci viene elargito! Il mestiere di vivere di Pavese contiene la verità più amara: tanto le donne non ti ameranno certo per la tua intelligenza. E abbiamo smesso di credere che per qualche pregio evidente si potesse ritenere di possedere i requisiti necessari.
Abbiamo sentito dire da Jankélévitch che si può vivere senza amore, senza musica e senza filosofia; ma egli si è affrettato a chiarire: mica tanto bene, però! E allora abbiamo chiesto alla musica e alla filosofia – che ci accompagnavano praticamente da sempre – di farsi sentire, di far sentire tutto il loro potere, ché, per fortuna, si trattava di beni alla portata di tutti: abbiamo aperto l’anima a tutte le pause e a ogni mossa della ragione. Ci siamo appostati dietro gli angoli e siamo scesi negli anfratti e agli Inferi. Abbiamo praticato e verificato l’incerta evidenza delle certezze morali, compresi del ritmo della vita e avvolti dalle svolte del pensiero e del cuore.
Abbiamo cercato di trasformare sempre l’illusione in speranza, seppellendo ogni cruccio e rammarico in fondo al cuore, per non lasciar trasparire mai agli occhi di coloro che ci venivano affidati di volta in volta o che si affidavano a noi il dubbio o la disperazione, la scepsi o il gelo che ci venivano restituiti in dono e che, di certo, non nutrivano la nostra anima, né costituivano lenimento per i giorni feriali. Cosa non abbiamo tentato? Non abbiamo forse rinunciato all’amore certo per un bene più alto, dimentichi di noi? Non era forse compito dare amore senza chiedere mai? pur avendo chiesto?
E ci ritroviamo ora su questa piazza deserta a chiederci perplessi perché presumemmo tanto! perché lasciammo il sito ordinato e pulito per altre sponde, solo probabili e lontane! Soprattutto, ci chiediamo perché indugiammo tanto sulla soglia, senza fare mai come il sultano dell’apologo di Barthes che, avendo chiesto a una cortigiana di cui era innamorato, ricevette come compito di attendere per cento anni seduto sotto una finestra; e lui lo fece, ma attese solo per novantanove anni: quando il tempo dell’attesa stava ormai per scadere, raccolse la sua sedia, la piegò, si alzò e andò via.
Il dialogo – ha scritto Cacciari – apre l’interrogazione; il dialogo è un dire (eiro) che domanda, che indaga (eìromai) e che è perciò anche ironico (eironeìa) nella sua stessa essenza.
Strumento per aprirsi e non per chiudersi, per varcare confini, non per costruirne, il dialogo si addice ai costruttori di ponti, agli uomini del confine, agli amanti delle zone liminari, dei territori dove si incontrano avamposti, le sentinelle della vita inquieta, impegnate a disegnare carte del territorio nemico, perché la vita acquista un senso solo lì, oltre il confine, nella terra incognita dove occorre avventurarsi per poter dire di aver acquistato identità e di aver dato senso alle cose. Occorre sporgersi sulle vite altrui, per attingerne il profumo e coglierne il sapore forte, perché solo a questa condizione si può dire di sapere. Per procedere verso un sapere dell’anima, si richiede l’avventura dell’aperto. Elemire Zolla ha scritto:
Uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli è l’atto più bello che si possa compiere. Quasi nemmeno ci rendiamo conto delle nostre tacite obbedienze e automatiche sottomissioni, ma ce le possono scoprire, dandoci un orrore salutare, i momenti di spassionata osservazione, quando scatta il dono di chiaroveggenza e libertà e per l’istante si è padroni, il destino sta svelato allo sguardo. Per mantenersi in questo stato occorre non avere interessi da difendere, paure da sedare, bisogni da soddisfare; si raccolgono i dati, si dispongono nell’ordine opportuno e, al di là dei recinti dove si sta rinchiusi, si spalanca l’immensa distesa del possibile.
E’ un’autentica uscita dal mondo – come lui chiama “le fenditure e i varchi aperti verso i possibili” che contraddistinguono la soglia della comunicazione significativa: incerti nell’anticipazione dei futuri incontri, ci moviamo scomposti sulla scena quando ci protendiamo verso l’altro. Tutto il mondo degli affetti è mobilitato e chiamato in causa, anche se il pudore ci spinge a ritrarci e a misurare i passi. Una nostra amica, che siede sulla cattedra universitaria di psicologia di dinamiche di gruppo, psichiatra e psicoanalista, ebbe a dirci un giorno che secondo lei
solo un’emozione può cambiare la nostra vita.
Il grande tema della trasformazione, del cambiamento si faceva ai miei occhi programma e progetto insieme, forte del dire di Margherita Guidacci:
Sia crescita, non costruzione! / Per questo scegliesti / il partito delle radici / contro il lastrico delle vie, fossero pure imperiali.
Per vie più modeste altri hanno scritto:
Le persone non cambiano, crescono!
E all’altro che è in noi, come all’altro che è fuori di noi, chiediamo di crescere, non di cambiare, di stravolgere la propria vita, ché già sappiamo quale risposta ci verrà: nessuno cambia; nessuno è disposto a cambiare, soprattutto quando è già avanti con gli anni…
Un delirio di immobilità sembra prendere ognuno, allora, come se una moderna Medusa avesse pietrificato lo sguardo: inebetiti restiamo senza risposta. All’apertura dell’uno non corrisponde l’apertura dell’altro. Al domandare scomposto non corrisponde un dire che a sua volta interroghi e che sappia giocare ironicamente con le cose, come si addice a un mondo che appare a noi in un gioco per cui la cosa stessa nel darsi si ritrae. Se non attingeremo la cosa ultima, se il nostro cuore tremerà di fronte alla ben rotonda verità, cadremo irrimediabilmente e irreparabilmente, precipitando nell’insignificanza: mancheremo all’appuntamento con l’altro. Se non ci faremo a nostra volta ‘beanti’ – ferita che sanguina -, come potremo accogliere la follia di chi ci chiede amore, divinando da un fondo enigmatico e buio? Se procederemo con il rasoio di Cartesio, separando l’intelletto dal cuore, i sensi dall’intelletto; se ripeteremo all’infinito il suo errore, quando imboccheremo le vie del cuore per fare anima, rendendo finalmente possibile l’incontro e il contatto che soli contano perché generano scambio e contaminazione, intreccio di intenzioni, promessa di felicità?
Qui non chiediamo felicità per noi, che abbiamo avuto tanto dalla vita: il pensiero corre agli infelici molti, ma soprattutto ai ragazzi che cercano e non trovano e che si perdono nella foresta dei simboli. Coltiviamo la speranza che sotto la rubrica del dialogo dei sentimenti essi trovino il filo d’Arianna di cui mancano.
Quando scrivo, assumo le vesti dell’altro, parlando in prima persona, mescolando ad antichi vissuti personali esperienze altrui. Il risultato potrebbe essere poco chiaro. Spero di non dare l’impressione di essere afflitto da pene sentimentali che non ho!
Il lavoro sociale, che è il campo in cui verifico la bontà delle mie ragioni morali, è solcato da ricorrenti discussioni intorno allo statuto dei sentimenti: la loro natura, la loro attendibilità, le relazioni con emozioni e passioni generano la discussione. Ma questo accade dappertutto. Tutta la società oggi è interessata a districarsi nelle vicissitudini del cuore.
C’è chi ci accusa di analfabetismo emotivo e sentimentale. Addirittura, ci ritroviamo talvolta nell’afasia, cioè nella condizione di non non saper dire per niente quello che proviamo. La paralisi, l’inibizione, l’impedimento, l’impotenza, la frustrazione sono gli ‘ostacoli’ da rimuovere sulla nostra strada.
Ci interessa giungere a destinazione, non crogiolarci nella confusione né inacidire nella recriminazione! Quando ci abbandoneremo al vissuto restituito in prima persona, lo faremo solo per dare enfasi al contenuto emozionale. Non la mozione degli affetti ci muove, ma un’esigenza di chiarezza. I meri concetti nell’ordine del cuore si addicono alla trattatistica filosofica e scientifica, non al resoconto umano delle storie personali: l’incontro con tanti ragazzi in tanti anni ci consente di raccontare.
La memoria di ognuno di essi è perduta: non abbiamo tenuto traccia della storia di ognuno. Per questo, ci aggireremo tra le nebbie del passato, per strappare all’indistinto qualche scintilla di verità che valga a far sentire come l’esistenza spezzata – così io chiamo l’esistenza del tossicomane – cerchi se stessa, errando eretica erotica.
Parafrasando Eco, che al tempo della rivista Alfabeta scriveva che i libri si parlano tra di loro, si potrebbe dire che i sentimenti si parlano tra di loro: non sono irrelati, solitari, separati, scissi dalla realtà dinamica dell’altro. Noi li pensiamo forse uno alla volta, ciascuno come un ‘semplice’. In realtà, ogni sentimento è una costellazione di moti dell’anima, accompagnata e preceduta da eventi chimici ed elettrici, emozioni e volizioni, passioni ed azioni… Roberta De Monticelli va dicendo da qualche anno che avremmo bisogno di articolare un po’ i nostri sentimenti morali, cioè dovremmo imparare a pensarli insieme, dipendenti l’uno dall’altro. Della vita della coscienza, allora, occorre descrivere la confusione, la complessità l’altalenante accettazione ora del bene ora del male. Galimberti ha scritto qualche anno fa: “Quando mi sveglio al mattino, non so se mi guiderà un demone buono o un demone cattivo”. E così facendo, aiutiamo i ragazzi a pensarsi come una coscienza morale attraversata e spesso solcata da forze che la lacerano o che l’aiutano a ritrovarsi e a ristabilire l’armonia spezzata con se stessi e con l’esterno. Dovremmo dirci, forse, che i sentimenti dovrebbero parlarsi fra di loro: il dialogo a cui questa Rubrica allude non è solo quello che dovremmo intrattenere con gli altri, costruendo sapienti traiettorie di senso che dessero vigore e prestigio morale all’anima… Prima ancora della scoperta dell’altro, c’è da fare i conti con i propri demoni, con la propria Ombra, con un carattere personale che troppo spesso il senso comune invoca come una clava di cui servirsi per imporre una natura immutabile e non manipolabile in alcun modo: “sono fatto così” sentiamo dire spesso. A proposito di dialogo interiore, è stato scritto negli ultimi anni che molte uccisioni di cui si è occupata lungamente la cronaca si spiegano con la mancanza del necessario spazio interiore in cui consumare il dialogo con se stessi, per scrutarsi, per fare l’esame di sé, per elaborare le risposte a cui la civiltà dovrebbe aver abituato gli abitanti della terra e che sole li distinguono dalle altre specie animali. Se gli animali funzionano secondo lo schema S-R – stimolo-risposta -, dell’uomo si dice che tra S ed R è in grado di interporre un intervallo di tempo che coincide con il lavoro della coscienza… Per questo, riteniamo nostro dovere costituirci come soggetti morali: è solo a quel livello che si qualifica la nostra natura.
Il sociologo tedesco Sigfried Kracauer molti anni fa scrisse che «la realtà si comprende a partire dai suoi estremi», e la tossicomania è sicuramente un ‘estremo’: essa è per noi l’anormale che ci aiuta a comprendere il normale che noi in qualche modo siamo. Le condotte suntuarie tipiche delle pratiche d’abuso non sono poi così diverse dalla compulsività che contraddistingue noi, i consumatori.
L’esperienza dell’ascolto, dell’assessment, della presa in carico, del tutoring, della supervisione – se pensati come fasi di un processo di affiancamento educativo di un ragazzo nei più diversi tempi del lavoro sociale, dai primi contatti ai colloqui di motivazione, dalla fase acuta della dipendenza alle terapie antagoniste territoriali, dal lavoro di ‘recupero’ alle verifiche periodiche, dal termine del programma residenziale al follow-up – è attraversata continuamente dalle questioni aperte sul fronte della vita emotiva e relazionale del ragazzo. Il nostro interesse per i sentimenti nasce da qui. Condividiamo in parte l’atteggiamento di chi non sopporta le discussioni ‘filosofiche’ sull’amore – ma una sua ‘definizione’ si richiede comunque: in ogni caso, nella vita quotidiana siamo guidati da un’idea dell’amore! – perché astratte e ininfluenti, per quanto riguarda la vita sentimentale dei singoli: non sarà a partire da un’idea dell’amore che andremo in cerca d’amore! Non potremo fare a meno, tuttavia, di assumere consapevolmente le nostre decisioni, sapendo cosa è normale e che cosa non lo è: è saggio, ad esempio, ritenere che non serve sapere che la dipendenza disfunzionale dall’altro è patologia? Chiameremo tutto amore? Il narcisismo come disturbo di personalità che rivela l’esistenza di persone del tutto prive di sensibilità è conoscenza inutile nella vita sentimentale? Io temo che abbia ancora ragione Roland Barthes, il quale dichiarava quarant’anni fa che senza cultura non è possibile nemmeno essere innamorati, e il paradosso di fronte al quale egli ci mette è presto spiegato: l’innamoramento e l’amore non richiedono la laurea in Estetica, ma la capacità di esprimere i propri sentimenti e di dare un nome alle emozioni sicuramente servirà a far durare una relazione sentimentale, ché sarà più facile, con il sostegno della conoscenza di sé, affrontare le tempeste e le incomprensioni, le situazioni di stallo e quelle di pericolo per la durata del sentimento…
Sotto questa rubrica raccoglieremo racconti brevi di mancati incontri, di tensioni irrisolte e di intenzioni mai dichiarate, di fraintendimenti e incomprensioni, dell’incolpevole infelicità di cuori erranti che nel loro eretico amore hanno amato in modo inautentico la vita e che quando talvolta hanno scoperto la via si sono consumati nelle vane attese e nelle recriminazioni e che aspettano ancora giustizia perché quando presero a dire la voce uscì roca dal cuore. E che non furono compresi quanto pure avrebbero meritato. Su di loro non si posò mai uno sguardo compassionevole che fosse capace di perdonare e di suscitare riscatto e redenzione, lasciando precipitare il mondo nella malinconia del così fu. A quelli che non ebbero né chiesero scampo sono dedicate queste note.