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Ho sempre temuto i rimproveri di mio padre. Addirittura, il giorno della sua morte ho provato una sorta di sollievo: non avevo più paura di lui. Ho riflettuto su questa mia ‘condizione’: fragilità mia, rimproveri eccessivi? Non so bene ora cosa prevalesse nell’educazione severa di un tempo: ogni più piccolo errore era stigmatizzato e punito, talora anche aspramente. Senza nulla togliere all’autorità di mio padre che non ho mai smesso di amare, la sua voce tonante mi raggiungeva ogni volta scuotendomi dentro: si abbatteva su di me portando sconquasso e sconcerto. Mi sembrava tuono a ciel sereno, ingiustificato rilievo, sottolineatura eccessiva. Tutto era imperfetto, incompleto, incompiuto nelle nostre cose. E come poteva essere diversamente! Eravamo incompleti, imperfetti, senza identità. Ho impiegato gli anni della scuola media e poi del liceo e quelli dell’Università per trovare uno straccio di equilibrio personale. Ma quale equilibrio mai potevo esibire di fronte a me stesso, se risonava sempre la sua voce dentro di me, a ricordarmi i compiti che mi aspettavano, rispetto ai quali ero e sono ancora sempre in ritardo? Ma chi non rimanda mai a domani quello che dovrebbe fare oggi? A che cosa giovò rimproverarmi ad ogni piè sospinto, facendo di me, già timido dalla nascita – ferocemente timido -, una persona insicura e timorosa, tanto che poi scrissi a lettere di fuoco le parole del filosofo Hobbes: Il sentimento fondamentale della mia vita è stato la paura? Quando scrissi il testo che segue era il 1994. Mio padre era già morto. Inserii il motivo dei rimproveri tra le ’cause’ della tossicomania, perché convinto che i percorsi del riconoscimento – spesso tortuosi e incompiuti, quando non del tutto assenti – influiscono sui destini personali più della biologia e della genetica.
Dietro il vizio e la spinta al consumo; oltre la contiguità e la curiosità; indipendentemente da ogni analisi sociologica e statistica, la tossicodipendenza è la sola risposta alla sofferenza della persona di cui sia capace chi non è riuscito a trovare altre soluzioni ai problemi della propria esistenza.
Nessuno arriva ad infilarsi un ago in vena da un giorno all’altro. Dietro quel primo buco c’è un corteo di frustrazioni, di sconfitte, di silenzi, di esclusioni, di rimproveri, di fraintendimenti, di paure, di incomprensioni, di perdite, di vane attese, di desideri impossibili, di bisogni insoddisfatti, di astratti furori.
La tossicodipendenza non è una malattia del corpo. Si tratta di decidere qui dove andare a cercarla.
Se concepiamo l’uomo come una realtà duplice – corpo e anima -, la cercheremo nell’anima, dal momento che il corpo guarisce dal male che contraddistingue la tossicodipendenza, ma la persona continuerà a patire nella mente, nel cuore e nello spirito; nei pensieri, nei sentimenti, nelle emozioni.
Se concepiamo l’uomo come una realtà indivisibile, cercheremo la tossicodipendenza nella vita della persona, nel progetto esistenziale della persona, nella persona.
Studieremo le sue relazioni sociali, le sue relazioni familiari, le sue relazioni di gruppo, le sue relazioni ‘coniugali’: non isoleremo l’individuo dal suo mondo; lo assumeremo come cittadino e come persona, come parte dei sistemi in cui è immerso, ma soprattutto come singolo, cioè come una realtà spirituale dotata di coscienza morale.
(Ascolta il tuo cuore, città! – Venti Tesi: per non morire di droga, 1994)
Vizio, consumo, contiguità, curiosità… Oltre tutte le spiegazioni classiche del fenomeno della dipendenza da sostanze, abbiamo individuato in un corteo di mancanze e privazioni altre ’cause’ del disturbo. Di esse ci preme tematizzare oggi il rimprovero come stile della comunicazione.
Anche recentemente abbiamo assistito all’ennesimo episodio tragico tra i ragazzi: dopo un rimprovero, un dodicenne si è buttato dal balcone di casa sua ed è morto. Noi diremo: dopo un rimprovero, non a causa di esso. C’è sempre da indagare sulle cause che inducono una persona a scegliere di farsi del male. La Corte di Cassazione ha sancito che i rimproveri ripetuti sono mobbing. La stessa Corte ha stabilito che un Preside non può rimproverare un insegnante di fronte alla sua classe. Perfino nell’educazione dei cani al rimprovero consegue il perdono! Insomma, non si può rimproverare nessuno a cuore leggero, senza immaginare che sia senza conseguenze. Il giusto rimprovero è quello che si richiede per poter parlare di uno stile educativo adeguato alla persona che ci è stata affidata. Una ricerca scientifica attesta gli effetti che i rimproveri hanno su chi li fa: sembra che facciano sentir bene chi li fa. Se gli adulti Educatori avessero coscienza di quello che accade in loro come di quello che accade nei ragazzi quando siano oggetto di rimproveri, le conseguenze di questi sarebbero forse meno dirompenti.