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L’occupare la mente con esigenze pratiche, utili a qualcun altro e a se stessi, affannate fino alla distruzione di ogni sintomo di autocoscienza disinteressata è, dai maschi, ritenuta una salvezza. Perché il tempo soli con se stessi fa paura; angoscia e tortura la più parte di questa specie esteriore, soprattutto nelle prime, ruggenti, decadi dell’esistenza. Più oltre, qualcosa muta. Non per propria volontà, perché siamo obbligati nel corpo, pur adottando ogni contravveleno, a cambiare. Qualche avvisaglia già traspare prima della transizione agli anni sempre più poveri di eventi. I più tardivi, tra i maschi, e incorreggibili pur di fare qualcosa, ancora e ancora, si dotano di nuove mercanzie e ausili, che dovrebbero aprirli alle nuove aspirazioni. Cercano letture e pagine edificanti, massime e sacri detti antichi, maestri e terapeuti, pensieri buoni e più indulgenti. Partono per i pellegrinaggi e fanno opere buone. Non comprendono che questo tempo non va riempito; va fatto maturare attingendo a se stessi, alla propria memoria. Ma questa, se non precocemente coltivata, corredata di pensieri scarabocchiati negli intervalli della vita concitata precedente, di impressioni domestiche, con difficoltà torna alla luce.
DUCCIO DEMETRIO, L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini, RAFFAELLO CORTINA EDITORE 2010, pp.101-102
Se riconsidero tutta la mia vita di maschio, incontro facilmente me stesso: ritrovo le tracce che mi portano ai tempi più lontani, ai ricordi sempre vivi degli sforzi fatti per coltivare l’anima, per fare anima, per orientare verso l’interiorità l’intera esistenza.
Sicuramente, il lavoro della mente è stato favorito dalla mia naturale inclinazione alla vita schiva, che in qualche modo è il contrario della ‘vita esteriore’ di cui parla Demetrio.
Ho sempre osservato tutto ciò che di immateriale emergeva delle esistenze altre, lasciandomi trafiggere dalla luce della loro interiorità: ho patito ogni contatto, subendo dolorosamente ogni influenza, positiva e negativa. Mi sono fatto toccare da tutte le persone che ho incontrato. Dai vecchi, come dai bambini. Del mistero di ogni esistenza ho assorbito l’incanto. Potrei raccontare mille storie, per quanti volti ho costruito dentro di me. Delle innumerevoli donne che ho amato nulla posso dire, perché la maggior parte di esse non poteva essere avvertita di quanto accadeva in me. Intransitabile utopia è stata l’espressione che ho usato ogni volta, per dirmi che non potevo avvicinarmi troppo, non potevo aprire il mio cuore all’amore che non può essere corrisposto. Degli amori astratti nulla sarà mai detto. Gli amori mai nati.
Per vari decenni ho coltivato la convinzione profonda che l’introspezione psicologica servisse a scrutarsi dentro e a leggere tutto quello che si agita nel cuore. Nella vita degli affetti. Nella vita della mente. Ben presto, però, sono stato distratto dall’irruzione delle conoscenze psicoanalitiche, di cui debbo dire, tuttavia, che si sono rivelate una perdita di tempo: non mi hanno aiutato a saperne di più su di me. In campo ‘analitico’, conta soltanto lo sguardo esterno, di un altro, che si posi su di noi. L’autoanalisi è una pia illusione, per me. Piuttosto, psicologia e psichiatria hanno giovato alla comprensione della mia natura. La ‘conoscenza’ della mia personalità, in ogni caso, non ha generato cambiamenti di sorta.
La pratica di vita – l’esperienza religiosa iniziale, poi quella politica e sindacale, ma soprattutto l’azione educativa – ha generato in me la saggezza dell’amore, cioè la capacità di comprendere, di tenere insieme le ragioni antitetiche della vita, gli opposti che non possono escludersi, pena l’astrattezza dottrinale e l’inconcludenza pratica.
Ho saputo riconoscere sempre il bene che ricevevo. E ricordo tutto il bene che ho ricevuto. Me ne sono nutrito. In ogni momento della mia vita, mi sono dedicato alla valorizzazione di tutto ciò che di buono c’era negli adulti di riferimento, salvandoli tutti. Potrei dire quasi anno per anno ciò che ho appreso, restituendo la mappa dettagliata dei principi, delle massime, delle regole, delle prescrizioni che mi sono stati trasmessi.
Ogni sera, ho fatto l’esame (di coscienza). Addirittura, lo faccio ancora nel corso della stessa giornata, ‘riempiendo’ di consapevolezza ogni passo compiuto. Sono sempre presente a me stesso, sobrio e vigile.
Perdonare e ringraziare – come ho scoperto poi nell’esistenza del filosofo Derrida – sono state le attività maggiori. Ho ripreso da qualche anno un’antica abitudine mia, quella di inchinarmi mentre saluto le persone, anche giovani. Sento che non ci sia niente di più bello del fatto di far sentire immediatamente alle persone quanto grande sia il valore della loro esistenza per me. Solo quando provo paura mi irrigidisco. Mi inchino lentamente, abbassando gli occhi, quasi a voler trasmettere una sottomissione forzata, che non dovrebbe sussistere, per la mia dignità e per il mio onore. Mi riscatto sempre, però, impegnandomi a combattere il disagio che gli altri mi provocano, comunicando le ragioni del disagio stesso.
Io ricordo chi sono stato, cos’ero in antico. Delle profondità della coscienza credo di sapere tutto, perché mi sono sempre osservato vivere. Conosco le mie viltà, come i miei eroismi. Tuttavia, non parlerò mai né degli uni né degli altri. Lascio agli altri il compito di cogliere gli estremi dentro i quali sempre l’esistenza oscilla, per decidere cosa prevalga in me, se meriti fiducia e stima oppure no.
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