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Giovedì, 13 gennaio 2011
La prima volta che ho letto La politica dell’esperienza di Ronald Laing è stato nel 1968. A partire dal quel libro ho concepito poi la mia tesi di laurea su cui ho lavorato per tre anni.
In fondo al testo, dopo le argomentazioni psichiatriche che costituiscono l’anima del testo stesso, una sezione separata del libro intitolata L’uccello di fuoco. In nota: «Per meglio intendere il senso di questo scritto occorre ricordare che in inglese la parola bird (uccello) ha una connotazione femminile. Nel presente testo essa allude sempre all’aspetto femminile delle cose [Nota del Traduttore].» Seguono 20 pagine, precedute dai versetti del Vangelo di Tommaso:
Gesù disse loro:
Quando farete di due uno, e quando farete che l’interiore sia come l’esteriore e l’esteriore come l’interiore, e ciò che sta sopra come ciò che sta sotto, e quando farete che maschio e femmina siano una cosa sola, così che il maschio non sarà maschio e la femmina non sarà femmina, e farete che occhi siano al posto di un occhio, e una mano al posto di una mano, ed un piede al posto di un piede, e un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.
Il testo, un delirio. Dopo la razionalità acuminata del saggio filosofico, uno sproloquio su cui mi sono affaticato per anni, per arrivare a comprendere come Laing abbia potuto scegliere di abbandonarsi alla manifestazione di sé più sconcertante: il vano vaneggiare incomprensibile di un linguaggio che sembra quello dissociato dello schizofrenico. Oggi comprendo. Ma avevo già compreso, in realtà. Oggi comprendo meglio. La forma prescelta del ‘delirio’ serviva a dare voce al dolore della mente.
Ieri sera, prima la famiglia di A., padre madre sorella devastati e lacerati e in guerra tra di loro, poi in riunione l’invito a G. a dire apertamente di aver comprato una macchina per un figlio e un’altra macchina per l’altro figlio. Mentre i genitori di A., con composta dignità, ascoltavano sorridendo a loro volta come tutti gli altri. Nico era di passaggio. Si è fermato per una testimonianza. La morte del padre. Tre anni di Comunità. Il rientro. L’abbandono della donna con cui aveva convissuto per due anni. L’invito ad andare in Comunità: lui l’avrebbe aspettata. Il suicidio di lei. Due anni di dolore da lui non compreso. Depressione. Ricaduta. Abbandono di tutte le sue cose. Rientro in Comunità per altri tre anni. ‘Guarigione’. L’abbandono di Michela si era reso necessario, perché anche lei tossicomane. Nico mi ha spiegato alla fine della riunione di aver preso la decisione da solo. In Comunità lo avevano seguito nel lavoro di elaborazione di quella decisione, ma poi gli Educatori si erano convinti con lui che ormai egli non pensava più a lei. Dunque, da solo dopo aveva compreso di doversi separare da lei, nonostante l’amore rinato tra i due, per non compromettere il lavoro fatto su di sé. Nico è il primo maschio da cui sento dire una cosa del genere: al di sopra dell’amore, la dignità e la vita. Anche se poi la scelta personale è costata la vita ad un’altra persona. In realtà, egli ha compreso poi che non poteva essere lui a salvare Michela con il suo (inutile) amore. E lei non avrebbe salvato lui.
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