CAMMINARSI DENTRO (175): Oggi piove, qui.

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Costituisce motivo di conforto per me al mattino sentire che posso aprire questo spazio per scrivere, non importa ancora cosa: affiora, magari, solo un inizio come questo: «Costituisce motivo di conforto per me…», mentre il pensiero va al carattere esclusivo – è solo mio – di questo spazio e alle possibilità espressive che dischiude. Dipenderà dalla sensazione ricorrente in questi anni della sgradevolezza di una libertà civile solo apparente? della violenza del potere sempre in agguato?

Mi domando anche se si tratti di uno spazio ‘intimo’, ancorché pubblico, della scrittura. Se sia una faccenda finalmente privata, il solito ‘diario in pubblico’ presentato come altro, aggiornato, ridefinito, abbellito di ragioni un po’ pubbliche un po’ private. E’ storia che non interessa a nessuno, ma è importante scrivere anche i pensieri parassiti, perché sono i miei pensieri. Mentre scrivo, penso. Non ho una ‘brutta copia’ da trascrivere: scrivo sempre in ‘bella copia’, magari tornando sul testo, anche dopo averlo pubblicato. A questo proposito, mi ritrovo a pensare con rammarico che il post pubblicato sarà già stato letto da chi utilizza, ad esempio, un Reader, mentre io, anche a distanza di ore, continuo a rimaneggiare lo scritto: viene voglia di rincorrere le persone – ma chi? – per informarle del fatto che l’ultima aggiunta è decisiva, giacché tutto il post guadagna in chiarezza o prende una piega diversa dalla prima stesura…

Scrivo oggi per ingannare il cuore, che sanguina ferocemente perché uno dei nostri ragazzi giace in Ospedale, tra la vita e la morte. I momenti in cui arriva una notizia, cerchiamo di comprendere, chiediamo supplementi di informazione perché ancora increduli, non possiamo piangere perché in pubblico evitiamo di farlo, magari poi a casa nel bel mezzo della serata, mentre si passa dalla posta a facebook alla lettura dei giornali, ci accade di non riuscire a leggere bene, e non dipende dallo schermo sporco o dalle lenti appannate senza una ragione. Perché piangere, poi? Cosa piangere? Dopo tutti i ragazzi che abbiamo seppellito in questi venti anni e più, ancora un altro? Cosa dire di lui? Radunare i ricordi. Passarli in rassegna. Prepararsi alle cose che si chiederanno di lui. Sceverare tra quello che si può dire e quello che è meglio tacere. Cosa resta, poi? E che senso ha rappresentare una esistenza spezzata, senza dire mai cosa intervenne un anno fa o, come nel suo caso, più di dieci anni fa, a turbare gli equilibri della sua vita, agitando il suo cuore già inquieto e insoddisfatto?

Quante volte la vita è passata sotto i miei occhi e non ho potuto fermarla, per essere balsamo e farmaco, vento leggero che lenisce il dolore e attenua l’angoscia, parola di verità, promessa? Cosa mai avrei potuto promettere io alla vita che passa e se ne va, ogni giorno, perché è chiamata altrove? Quale speranza invocare, quale tregua, quale porto a chi era già al largo della vita e da nessuna parte riusciva a vedere un lembo di costa, la cima di una collina lontana, i lineamenti sbiaditi di una donna che aspetta? All’incrocio di due vie del cuore, non indugiammo insieme. Eppure, non bastò. I passi che facemmo insieme sono solo un pallido ricordo, anche se mille volte tracciammo la strada da percorrere e indicammo la meta più vicina perché non fosse aspro il suo andare. Il nostro delirio sale vanamente agli astri, ormai.

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