Contributi a una cultura dell’Ascolto: WALLACE STEVENS, Note per la finzione suprema

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WALLACE STEVENS, Note per la finzione suprema

V

Bevemmo Mersault, mangiammo aragosta Bombay con mango 
Chutney. Poi il Canonico Aspirino declamò 
su sua sorella, in che sensata estasi 
vivesse nella sua casa. Aveva due figlie, una 
di quattro e una di sette, che vestiva al modo 
di un pittore che con poveri colori dipinga. 
Ma pure le dipingeva consone alla loro 
povertà, un grigio blu ingiallato 
con nastrini, una severa immagine di loro, bianca, 
con perle domenicali, la sua gaiezza di vedova. 
Le celava sotto nomi semplici. Se le teneva 
più vicino col rifiutare i sogni. 
Le parole che pronunciavano erano voci che lei udiva. 
Guardava le figlie e le vedeva com’erano, 
e ciò che provava respingeva la frase più spoglia. 
Il Canonico Aspirino, detto questo, 
rifletté, mormorando un abbozzo fugato 
di lode, una coniugazione fatta da cori. 
Ma quando le figlie dormivano, sua sorella stessa 
domandava al sonno, negli eccitamenti del silenzio, 
solo il non confuso io del sonno per esse.

VI

Quando alla tarda mezzanotte il Canonico prese sonno 
e le cose normali si sbadigliarono via, 
il nulla fu una nudità, un punto, 
oltre il quale il fatto poteva progredire come fatto. 
Al che la cultura dell’uomo concepì ancora una volta 
le pallide illuminazioni della notte, d’oro 
sotto, molto al di sotto, la superficie 
del suo occhio e udibili nella montagna 
del suo orecchio, l’esatto materiale della sua mente. 
Cosicché egli fu le ascendenti ali che vedeva 
e muovendosi su di loro entro estreme stelle dell’orbita 
discese al letto dove i bambini 
giacevano. Dritto poi volò con immensa forza 
patetica all’ultima corona della notte. 
Il nulla era una nudità, un punto, 
oltre cui il pensiero non poteva progredire come pensiero. 
Doveva scegliere. Ma non era una scelta 
tra due cose che si escludono. Non era una scelta 
tra, ma di. Scelse di includere le cose 
che l’una nell’altra sono incluse, l’intera, 
la complessa, l’aggregante armonia.

VII

Impone ordini così come li pensa, 
come fanno la volpe e il serpente. E’ un bell’affare. 
Poi innalza campidogli e nei loro corridoi, 
più bianchi della cera, sonori, di chiara fama, 
erige statue di uomini ragionevoli, 
che superano il gufo più colto, il più erudito 
degli elefanti. Ma imporre non è 
scoprire. Scoprire un ordine come quello 
di una stagione, scoprire l’estate e conoscerla, 
scoprire l’inverno e conoscerlo bene, trovare 
non imporre, non aver ragionato affatto, 
dal nulla aver maturato un clima maggiore 
è possibile, possibile, possibile. Deve 
essere possibile. Accadrà che nel tempo 
il reale scaturirà dai suoi rozzi materiali, 
sembrando, dapprima, una bestia vomitata, diversa, 
scaldata da un latte disperato. Trovare il reale, 
essere spogliati di ogni finzione eccetto una, 
la finzione dell’assoluto Angelo, 
taci nella tua luminosa nube e ascolta 
la luminosa melodia del giusto suono.

VIII

Che devo credere? Se l’angelo nella sua nube, 
serenamente fissando il violento abisso, 
pizzica le sue corde per strappare la gloria abissale, 
salta giù tra le rivelazioni della sera, e sulle ali 
spalancate, di nulla ha bisogno se non del profondo spazio, 
se dimentico del centro dorato, del destino aureo, 
s’infiamma nel moto inerte del suo volo, 
sono io che immagino quest’angelo meno soddisfatto? 
Sono sue le ali, l’aria perseguitata dal lapis? 
E’ lui o sono io che sto vivendo questo? 
Sono io allora che continuo a dire che c’è un’ora 
piena di un’esprimibile gioia, in cui 
di nulla manco, felice, dimentico della dorata mano 
del bisogno, soddisfatto senza la maestà che consola, 
e se c’è un’ora c’è un giorno, 
c’è un mese, un anno, c’è un tempo in cui 
la maestà è uno specchio dell’io: 
io non ho ma sono e poiché sono, io sono. 
Queste esterne regioni, con cosa le riempiremo 
tranne che di riflessioni, di scappatelle della morte, 
cenerentola che si realizza sotto il tetto?

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A chi dovesse chiedersi cosa c’entri Stevens e con lui la suprema finzione della Poesia con l’ascolto nella relazione d’aiuto, ma più in generale in ogni relazione umana significativa, non esiterei a rispondere che andiamo incontro al mondo con il nostro carico di bene e di male, con gli occhi e con le orecchie con i quali ci è concesso di accedere all’Invisibile. E se nel nostro bagaglio non possediamo versi di verità e bellezza mandati giù a memoria, rischiamo di trovarci impreparati quando all’improvviso ci si parerà davanti l’umile splendore della vita quotidiana: non lo riconosceremo. E’ immaginabile un dramma più grande per noi?

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