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Giovedì, 10 marzo 2011
Scrivere è operazione che forse richiede una qualche dose di ‘spudoratezza’. Mettere a nudo il proprio cuore nel web, senza sapere chi leggerà, non è facile. Sentirsi esposti al giudizio altrui per le proprie debolezze è sgradevole, talvolta. Non possiamo chiedere a chi non c’è di dire. E poi, cosa dovrebbero dirci i viandanti occasionali e quelli che presumibilmente ci seguono!? Dopo tutto, ha ragione Roland Barthes a dire che scriviamo solo per noi stessi.
Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno amare da chi amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove non sei: è l’inizio della scrittura.
Chi ci legge si troverà ora nella condizione per niente invidiabile di chi non c’entra nulla. Eppure, qualcosa ci lega. Google Analytics rileva ogni giorno gli accessi a questo sito: oscillano tra le 50 e le 100 ‘presenze’. Dunque, c’è chi legge le mie riflessioni. Mi basta la soglia bassa dei passanti: alcune decine di persone, per ragioni che mi sono sconosciute, si fermano a leggere. Che cosa ci lega? forse, l’amore per la scrittura, per l’esercizio della scrittura.
In questa Rubrica io mi ripeto, cioè torno a dire in modi diversi le stesse cose: emozioni e sentimenti, ragioni morali e sentimentali, situazioni dell’anima. D’altra parte, a pagina 13 di Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello del neurologo portoghese Antonio Damasio leggo:
I sentimenti – di dolore, di piacere o di qualità intermedia tra questi estremi – sono il fondamento della nostra mente.
Eppure, saremmo portati a pensare che la nostra mente è fatta soprattutto di pensieri. E poi, a pagina 18:
L’emozione e le reazioni affini sono schierate sul versante del corpo, mentre i sentimenti si trovano su quello della mente. Lo studio del modo in cui i pensieri inducono le emozioni – e viceversa le emozioni fisiche diventano quel genere di pensieri che noi chiamiamo sentimenti – ci permette di osservare mente e corpo, manifestazioni evidentemente diversissime di un organismo umano unico e senza soluzioni di continuità, da una prospettiva privilegiata.
Negli anni dell’Università leggevo su L’Espresso la rubrica di filosofia tenuta da Vittorio Saltini. Un giorno scrisse sull’inutile precisione di Husserl. Alludeva alle 40.000 pagine di manoscritti lasciati in archivio, nei quali il filosofo sarebbe stato impegnato a rendere sempre più chiaro ciò che inseguiva da una vita: la realtà della coscienza nelle sue relazioni con gli altri. Quell’inutilità mi è sempre piaciuta.
La preoccupazione è quella di riuscire a dare un nome a tutto quello che mi accade di pensare e di sentire. In questo senso, essa è affar mio. Ognuno di noi dovrebbe farlo, cioè dovrebbe esercitarsi a dire nel migliore dei modi cosa vedono i propri occhi, o meglio cosa sentono i propri occhi: quello che sentono dentro di noi e dentro gli altri.
Inseguire l’invisibile, a partire dal visibile, dalla superficie delle cose. Illuminare gli spazi vuoti, i silenzi, gli scarti, le inflessioni della voce. Dare voce al deserto.
Si potrebbe dire che si tratta di un atto d’amore per i propri frammenti, uno sforzo incessante teso a dare continuità a ciò che non ne ha e a spezzare il continuum dell’esperienza facendosi sguardo discreto, cioè occhio pronto a cogliere le voci e i suoni dell’anima del mondo. Interrompere la continuità, lavorando il concetto di segmenti d’anima: esitazioni, perplessità, sospiri.
Le parole ci vengono incontro già: occorre andare a stanare il lupo solitario, il cuore angosciato e in pena, il ragazzo perso nel labirinto delle sue illusioni.
Amico dell’invisibile è espressione che andava bene per Montale, secondo un suo amico critico, e dovrebbe andar bene anche per noi che non facciamo altro che indicare «gli scorni di chi crede che la realtà sia ciò che si vede».
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