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Mercoledì 22 giugno 2011
L’esperienza dell’ascolto è personale, varia cioè da persona a persona, e soprattutto varia nel tempo. L’Educatore impegnato in un Centro di ascolto non ha da esprimere una ‘professionalità’ statica, il risultato di studi fatti all’inizio della ‘carriera’ di ‘ascoltatore’, come un corso di laurea universitario. Anche quegli studi non bastano. Non dimenticherò mai un collega del Liceo Classico di Frosinone che mi rivelò un giorno: «Ci vogliono almeno venti anni per fare un professore di liceo!» Voleva rassicurarmi a proposito del fatto che non si riesce a conoscere tutto quello che c’è da conoscere in quattro anni di studi universitari. Nel Sindacato avevamo l’abitudine di dire che la professionalità si forma sul campo. Naturalmente, il sostegno della teoria non mancò mai. Studiare è per me ancora oggi il compito più importante. Passo la maggior parte del mio tempo a leggere.
Tra insegnamento e ascolto c’è stato negli ultimi venti anni uno ‘scambio’ continuo: la scuola ha fornito ‘argomenti’ a sostegno dell’idea di educazione da seguire ed esempi della qualità della relazione umana da instaurare con i ragazzi; l’ascolto ha rappresentato una sacca di resistenza, un archivio di emozioni e saperi, una palestra di conoscenza dell’evoluzione nel tempo dei comportamenti giovanili d’abuso. A scuola ero più consapevole della responsabilità degli insegnanti: il ‘destino’ dei ragazzi in alcuni momenti è nelle loro mani. Al Centro di ascolto avverto la drammaticità del fattore tempo: ogni istante è prezioso per accrescere le possibilità di aiuto. Massimo Cacciari ha parlato di arrischio della relazione. Siamo sempre esposti, come adulti educatori, in un rapporto con i ragazzi in cui è in questione sempre quello che abbiamo da offrire noi nello «scambio di risorse» di cui si nutre l’incontro, quando si dia vero incontro. Se ci sta a cuore il futuro dei ragazzi che si affidano a noi, l’esito della relazione dipenderà dalla nostra autenticità, dalla sincerità e dalla veridicità delle nostre parole. Saremo messi alla prova: le nostre parole risulteranno vere se ad esse corrisponderanno comportamenti coerenti. Dobbiamo essere congruenti, come dicono i rogersiani.
Dalla vita delle comunità per tossicodipendenti abbiamo appreso all’inizio dell’esperienza di ascolto che i ragazzi, quando si svegliano al mattino, ‘studiano’ gli Educatori per verificare se possono ‘fregarli’ in qualche modo. Indipendentemente da quello che c’è dall’altra parte, a noi interessa qui la nostra consapevolezza di essere sotto il loro sguardo e la consapevolezza del peso dei nostri comportamenti linguistici.
A scuola mi piaceva scrivere nel mio Progetto didattico, all’inizio dell’anno, qualcosa a proposito del ‘comportamento insegnante’, per sottolineare la consapevolezza della risorsa data dagli atteggiamenti personali. Dopo averli distinti accuratamente da emozioni, stati d’animo e sentimenti, scopriremo che gli atteggiamenti, come quarto livello della vita affettiva, «anche se si vestono di opinioni che sembrano basate su una corretta analisi dei fatti, sono in realtà un groviglio di idee, di percezioni distorte, di sentimenti, di stati d’animo, talvolta anche di emozioni di base che formano i nostri pregiudizi, i nostri stereotipi e molte delle nostre valutazioni e prese di posizione». (Dario Ianes, Educare all’affettività. A scuola di emozioni, stati d’animo e sentimenti, Erickson 2007)
Sono comportamenti linguistici le risposte che daremo a richieste esplicite – ad esempio, un ragazzo mi chiede un libro particolare ed io me ne ricordo e lo porto all’appuntamento successivo – ma soprattutto ai bisogni inespressi, che dovremo saper interpretare verbalizzandoli, esprimendoli, cioè, con la parola. Per me, l’ascolto è soprattutto questo: interpretazione dei bisogni autentici delle persone. Se si abbraccia la teoria secondo la quale la tossicomania è una forma di comunicazione sospesa [vedere Eugenio Borgna, Noi siamo un colloquio, Feltrinelli 1999: parte III. La comunicazione sospesa, 2. Il fascino della dissolvenza, §1. Il vuoto esistenziale], quando non interrotta, risulterà ‘esemplare’ per il ragazzo l’esperienza che gli faremo fare nel Centro di ascolto di una comunicazione che è possibile… Fin dal primo contatto è indispensabile fornire la sensazione palpabile che è possibile ‘comprendersi’: il Centro è una mente capace di ‘contenere’, di ospitare la sofferenza personale. Dare ad essa un nome non è mera operazione tecnica. Non sono gli esperti di parole le persone giuste. Non una postura, un setting appropriato basteranno al compito: non si tratta di indovinare, di fare centro… Davanti al ragazzo deve stagliarsi la sagoma corposa di una presenza umana, di una persona che porti sulla carne i segni di un’esistenza vissuta. La mia ‘vecchiaia’, forse, è più convincente di mille tecniche azzeccate. L’accettazione dichiarata, al momento opportuno, delle fasi della vita trascorse e di tutti i travagli che le hanno accompagnate può essere un argomento rasserenante: aiuta a fornire la dimensione dei tempi lunghi sui quali si allinea l’azione e con essa sforzi, sacrifici, rinunce…
Naturalmente, si richiederà dall’altra parte un accordo sui significati dati alla propria esperienza, all’invisibile della propria esperienza. Il kairós, il cosiddetto ‘tempo debito’ che accompagna tutti i processi empatici, più che l’occasione favorevole e il giusto tempo è per me la qualità dell’accordo che raggiungiamo intorno ai significati da dare alle cose.
Alle cose daremo un nome. L’accordo verte sul nome. Certo, anche sugli avverbi di tempo, che insinueremo accortamente, ricorrendo sempre al linguaggio del cambiamento. L’esito di un colloquio, a volte, dipende da un aggettivo, dall’aggettivo giusto assegnato a un gesto vissuto dall’altro, a un’attesa frustrata, a un amore mai nato… Insomma, il cuore della relazione d’aiuto è il linguaggio, e il linguaggio non è la lingua italiana, che pure verrà in nostro soccorso, ma i modi personali di atteggiarsi di fronte a tutte le vicissitudini della coscienza, nello sforzo perenne di emergere alla consapevolezza che la persona aspira a mettere in azione. Incidere sulla struttura delle motivazioni spesso è possibile se si riesce a suggerire le parole per dire chi e cosa, non importa quando e come.
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